Un tempo ci furono Alberto Moravia e Altiero Spinelli. Oggi Cecilia Strada e Ignazio Marino. La battuta certamente è troppo facile e ingenerosa. Non è questione di paragoni, anche perché in tutti i campi il divario tra ieri e oggi è enorme, ma di tornare su una questione che ha ancora una sua attualità: quella del rapporto tra la politica e la mitica società civile nell’occasione più importante, quella delle elezioni. Oggi i contatti tra la sinistra e gli intellettuali sono scarsi, complicati e circondati da una coltre di scetticismo da ambo le parti. I partiti sembrano ignorare il lavoro intellettuale, con tanti saluti a Max Weber, e gli intellettuali vomitano fiele sulla politica tenendosene lontani, almeno fino a quando non gli serve per ottenere un posto da qualche parte o per il lancio di un film. E infatti le liste elettorali oggi sono abbastanza poverelle di nomi esterni.

Il Pd ne manda in campo giusto tre (oltre alla Strada, i giornalisti Marco Tarquinio e Lucia Annunziata); poi vedremo i nomi della lista di Carlo Calenda e degli Stati Uniti d’Europa, ma al momento non stanno girando grossi nomi; Sinistra-Verdi candidano appunto Ignazio Marino, Mimmo Lucano e Ilaria Salis (ma in questo caso si tratta di una vicenda diversa e del tutto particolare). Già, a chi gli va di andare a Bruxelles?
Eppure in altri tempi non era così. Nel 1979 ci andò Moravia, in quel tempo ossessionato dalla corsa agli armamenti e convinto che nel primo europarlamento eletto a suffragio universale potesse far sentire la sua flebile voce. Poi nel 1983 toccò a Natalia Ginzburg che fece la sua campagna elettorale come una militante di base andando a distribuire i volantini ai mercati: nel suo primo intervento a Montecitorio chiese che il prezzo del pane restasse invariato. I comunisti avevano la costante preoccupazione di presentarsi alle elezioni, cioè davanti all’opinione pubblica, non solo con i volti dei dirigenti ma anche con quelli degli “esterni” o, come si chiamavano, gli “indipendenti di sinistra” (la cui storia specifica meriterebbe ben altro spazio), cioè scrittori, economisti, giuristi, attori e quant’altro potesse contribuire a dare l’idea di ricchezza e pluralismo, alla ricerca di quella legittimazione intellettuale e morale che invece difettava sul piano strettamente politico (il famoso “fattore K” coniato da Alberto Ronchey).

L’idea di aprire le liste comuniste a personalità non di partito, anche se ovviamente vicine (“organiche”) al Pci, venne già alla fine degli anni Sessanta a Luigi Longo, che incaricò Giorgio Napolitano di ricercare indipendenti da inserire nelle liste comuniste. La cosa rispondeva ovviamente anche a una preoccupazione propagandistica: quella di avere con sé volti celebri in grado di acchiappare voti, anche con qualche ingenuità (che i giovani votassero per Gino Paoli, che pure fu eletto nel 1987, è tutto da dimostrare…). Anche il Psi aveva dei fiori all’occhiello mica male, Giorgio Strehler su tutti, e lo stesso i radicali (Leonardo Sciascia). Ma la vicenda riguarda soprattutto il Pci e i suoi eredi. La cosa funzionò abbastanza. L’elenco dei non comunisti eletti nelle liste del Pci è sterminata in rappresentanza di una pluralità di matrici culturali socialista (come Lelio Basso, Stefano Rodotà, Antonio Giolitti), cattolica (come Mario Gozzini, Adriano Ossicini, Claudio Napoleoni), azionista (come Ferruccio Parri, Vittorio Foa), e ancora scrittori (la citata Ginzburg, Carlo Levi, Gina Lagorio), intellettuali laici (Giulio Carlo Argan, Antonio Cederna, Luigi Spaventa). Eduardo, che era stato nominato senatore a vita da Sandro Pertini, si iscrisse al gruppo della Sinistra indipendente. Al presidente della Repubblica disse: «Guagliò, io sono e sarò al Senato quello che sono stato sia nella vita, sia nelle commedie. Tu sapevi e i tuoi amici sanno che io sono per il popolo. Io sono figlio del popolo».

La ricerca andava davvero in tutte le direzioni, non solo verso i nomi famosi. Si trattava di portare in parlamento o a Bruxelles pezzi di società attraverso figure emblematiche anche oscure, l’operaio della Fiat, la femminista, il giovane disoccupato e via via rappresentando il mosaico della società civile. Non sempre gli indipendenti si trovavano a loro agio. Anzi. Troppo vacue certe liturgie della politica e dei meccanismi istituzionali, troppo sordo il partito che una volta eletto si dimenticava dell’indipendente di turno, così che spesso – fatta una legislatura – quello tornava al suo lavoro: proprio Paoli fu uno di quelli che più di altri si sentiva un pesce fuori dall’acqua («Sono sempre stato un anarchico che crede che la strada per il comunismo passi dall’anarchia», disse mostrando una certa, diciamo così, impoliticità). La verità è che gli esterni molto raramente incisero sul Pci. Era certo gente importante, famosa o no, comunque da stare a sentire. Ma poi il partito rimaneva il partito. Cosa che in ultima analisi è normale, giusta. Perché quando un partito – qualunque – perde la propria autonomia e diventa subalterno ad altre istanze, in quel momento cessa di essere un soggetto e diventa uno strumento per interessi di altra natura. Oggi però la distanza tra politica e società e tale da costituire persino un problema della democrazia. L’impressione, da questo punto di vista, è che le imminenti elezioni europee saranno un’altra occasione perduta.