Tutti i fronti del conflitto
L’Occidente codardo si fa del male pur di isolare Israele: ignorata in Medio Oriente la strategia degli ayatollah

C’è una cosa essenziale che non viene detta mai dai politici e dai giornalisti che giudicano Israele: il conflitto che lo Stato ebraico sostiene dal 7 ottobre 2023 è una guerra di aggressione non provocata. Questo è chiaro per Gaza e Libano, con cui regnava la calma prima degli attacchi di Hamas nel Sabato Nero e di Hezbollah il giorno dopo. Questo è vero anche dell’Iran, con cui Israele non ha alcuna controversia territoriale o economica, dato che non vi sono confini in comune. Ma il caso più eclatante è quello dello Yemen. Perché un Paese poverissimo (il reddito annuale pro capite del 2018 è di 895 dollari), devastato da decenni dalla guerra civile, lontano 2.200 chilometri da Tel Aviv (la distanza tra Milano e Mosca), ha scelto di mettersi in guerra con Israele? Eppure gli Houthi vi hanno lanciato contro quasi 600 missili e droni; ancora nei giorni scorsi vi sono stati nuovi attacchi, a cui Israele ha dovuto rispondere di nuovo.
Lo Yemen è un Paese grande due volte l’Italia, con una civiltà molto ricca e antica, cui gli ebrei hanno dato un contributo importante. La parte settentrionale divenne indipendente nel 1918, quella meridionale intorno al porto di Aden fu colonia britannica fino al 1967, quando vi fu instaurato un regime marxista fino all’unificazione del 1990. Da allora, non è mai cessata la guerra civile. Il movimento che chiamiamo Houthi nacque nel ’92. Questo è il nome della famiglia del fondatore Muhammad, che fu ucciso dai sauditi; ma il gruppo si definisce “Ansar Allah”, cioè “partigiani di Dio”. Dopo combattimenti che durarono tra il 2011 e il 2015, presero il controllo delle provincie settentrionali del Paese, mentre il governo legittimo dello Yemen ancora oggi controlla Aden e le province settentrionali.
Caratteristica importante degli Houthi è che raggruppano la popolazione sciita dello Yemen. Gli sciiti sono una piccola minoranza, circa il 10% del mondo islamico, divisi dalla maggioranza sunnita da una guerra di religione che dura dall’VIII secolo; ma essi sono la religione ufficiale dell’Iran. Non si capiscono né la guerra in corso né gli sviluppi degli ultimi cinquant’anni in Medio Oriente se non si considera la grande strategia degli ayatollah: prendersi la rivincita sui sunniti, impadronirsi dei luoghi sacri in mano ai sauditi, i quali sono sunniti, sfruttando a questo scopo l’odio per Israele e per gli ebrei diffuso nei Paesi arabi, fino all’inevitabile conquista del mondo promessa dal Corano.
Gli Houthi sono importanti in questo quadro, perché sono sciiti insediati nella penisola arabica, relativamente vicino alla Mecca; e inoltre la loro posizione geografica consente il controllo dello stretto che chiude il Mar Rosso, da cui passa il 12% del traffico marittimo mondiale (dall’Estremo Oriente verso l’Europa e la East Coast Usa). Per questa doppia ragione strategica, gli Houthi sono diventati per l’Iran l’equivalente meridionale di Hezbollah: sono stati finanziati, armati, sostenuti prima nella guerra che hanno condotto contro i sauditi appoggiati dall’Occidente tra il 2015 e il 2017, e che hanno sostanzialmente vinto, e ora nell’aggressione contro Israele con i lanci missilistici e il blocco (a tratti quasi totale) dello stretto, che ha danneggiato anche Arabia, Egitto ed economia europea.
Gli occidentali hanno cercato di rompere questo blocco con pattugliamenti marittimi e bombardamenti aerei, ma gli Houthi hanno provocato abbastanza danni alla Marina americana da indurre Trump a un accordo con loro. In sostanza, una ritirata. E ora Israele è la sola a dover sostenere questa strana guerra aeronavale a distanza. Perché questo conflitto non è solo il frutto di un’aggressione, ma è aggravato dalla codardia dei Paesi occidentali, restii a difendere non solo il diritto all’esistenza di Israele, ma anche i propri interessi.
© Riproduzione riservata