Non è facile comprendere quanto sia accaduto e cosa possa accadere ancora nella nuova stagione dei veleni che rischia di ammorbare in modo irrimediabile la magistratura italiana. Chi afferma che siamo in presenza di un secondo smottamento dell’unica frana iniziata – ormai due anni or sono – con la divulgazione illecita delle conversazioni captate a Palamara dice una cosa in parte sbagliata e in parte corretta. Sarebbe ingiusto negare che, questa volta, le correnti dell’Anm non ci azzeccano un ben nulla, che non si tratta di spartizioni e che non sono in gioco le bramosie di carriera di singole toghe.

Lungo questa traiettoria le due vicende sembrano avere poco o nulla in comune. Anzi si ha l’impressione che Palamara sia stato fin troppo ambizioso nel titolare il suo libro Il Sistema laddove può darsi che si trattasse di un più modesto “Sottosistema”, se non di un affluente secondario. È vero, invece, che l’avvocato Amara, ora come allora, è al centro di uno scontro durissimo entro le mura delle due più importanti procure della Repubblica del paese. Roma e Milano sono finite sulle prime pagine dei giornali perché due magistrati di quegli uffici si sono convinti che l’azione investigativa avesse sonnecchiato e hanno avuto il sospetto che nessuno volesse metter mano al turbolento e melmoso calderone scoperchiato dalle dichiarazioni del legale siciliano.

È vero, ancora, che entrambi i pm si siano rivolti al medesimo componente del Csm per far valere le proprie ragioni e per dare evidenza ai propri sospetti. È vero che, in entrambi i casi, non è dato francamente ben comprendere quale sia stato il comportamento del dottor Davigo e in che modo abbia dato corso ai propri doveri e, quel che più conta, come li abbia formalmente documentati. L’avrà fatto certamente, ma tra dichiarazioni rese alla procura di Perugia in parte sotto l’ombrello del segreto d’ufficio, mezze frasi rilasciate alla stampa e anticipazioni indirizzate ad altri soggetti istituzionali (il procuratore generale della Cassazione e la presidenza del Csm) non si capisce molto di quanto è accaduto.

Il dottor Davigo ha fatto della sua tagliente franchezza la cifra del proprio successo elettorale e mediatico e sarebbe bene, per lui come per tutti, che prosegua su quella strada per non dissipare un cospicuo patrimonio di credibilità. Ha in mano, praticamente da solo, un pezzo importante della partitura di questo secondo atto della tragedia vissuta dalle toghe e dall’opinione pubblica e si deve essere certi che renderà tutto di pubblico dominio oltre che interamente comprensibile. Per intanto la sorte disciplinare, e non solo, dei due magistrati (Storari e Fava) che avevano immaginato di poter mettere mano alle dichiarazioni dell’avvocato Amara sembra pesantemente compromessa e questo, sia chiaro, non è di per sé un bene. Si vedrà se hanno sbagliato o meno tempi e modi della loro azione, se hanno agito o meno con correttezza, ma resta sgradevole e ingiusta la sensazione che – come ha detto appropriatamente il dottor Davigo – in queste giornate agitate si guardi al dito e non alla luna con quel che è venuto fuori.

Il punto vero è stabilire, e con una certa rapidità, se esista o meno un gruppo di potere illegale che, attraverso le nomine dei vertici giudiziari, intendeva condizionare la vita della Repubblica oppure se quella odierna è l’ennesima bufala che – al pari di altre (i vari sequel della P2) – ciclicamente trascolora le ambizioni smisurate di qualcuno in oscuri progetti eversivi. Da questo punto di vista siamo ancora all’anno zero e nessuno è in grado di sapere se quel gruppo, quella Loggia Ungheria, esista o meno. Certamente sono in corso delle indagini, ma è innegabile che sia giunto il momento di saperne qualcosa di più anche a tutela delle persone perbene che possono essere state ingiustamente coinvolte.

La reazione, forse scomposta, di due toghe ritenute serie e stimate, come Storari e Fava, ha lasciato molti attoniti e sarebbe bene ascoltarne fino in fondo le ragioni per comprendere dal loro racconto – e al di là dell’affaire Amara – se sia giunta l’ora di riscrivere in modo radicale e definitivo l’assetto degli uffici di procura che, dopo la riforma del 2006, sono divenuti la principale meta carrieristica di tanti e, a volte, luoghi per feroci regolamenti di conti. Comunque vada, sia chiaro, l’avvocato Amara un risultato l’ha raggiunto in ogni caso: se la Loggia dovesse esistere avrebbe l’innegabile merito di averla scoperchiata a dispetto di tanti. Se la Loggia, invece, non esiste ha disvelato quanto fragile sia la governance della magistratura italiana, saltata per aria in gangli e assetti vitali al solo profilarsi di un approfondimento delle sue dichiarazioni. In mezzo ci stanno quei componenti del Csm e quelle toghe che anche questa volta – i cittadini ne siano persuasi – hanno mostrato di avere la schiena dritta e di non indietreggiare al cospetto dei propri doveri.