La Loggia ungheria
Davigo ha rispettato o no le regole sul segreto sulla loggia Ungheria?
Il clamore della vicenda relativa alle dichiarazioni di Amara ai pm di Milano, rese note malgrado il segreto istruttorio, ad alcuni membri del Csm e poi alla stampa, rappresenta l’ennesimo sintomo dei mali che affliggono la giustizia e le istituzioni che dovrebbero presidiarne il buon funzionamento. Ma saremmo in contraddizione con quell’idea di civiltà giuridica, che impone di non inseguire la spettacolarizzazione delle vicende giudiziarie, se ci lasciassimo andare a considerazioni tratte dalla propalazione di notizie tutt’ora oggetto di accertamento e indagine.
Sono cose che non dovrebbero essere conosciute da chi è estraneo ai vari procedimenti. E il principio vale anche quando quei procedimenti riguardino magistrati o alte cariche. Semmai si può evidenziare l’effetto di “contrappasso” di questo caso rispetto alle prassi, invalse ormai da decenni, di trasferire procedimenti e processi penali nelle piazze e sui mezzi di informazione. Una nemesi, è stato detto, che si abbatte adesso anche su magistrati e procure, mentre solitamente riguarda, prevalentemente, colletti bianchi e politici. Ma, appunto, di questo non vogliamo parlare, per non rinnegare principi che devono valere per tutti, anche nei confronti di coloro che, invece, interpretando un malinteso dovere di informazione, ritengono rientri tra i compiti dei magistrati rendere conto del proprio operato direttamente al popolo attraverso dichiarazioni e conferenze stampa. Quello di cui invece si può e si deve parlare sono i fatti avvenuti al di fuori dei procedimenti. E in particolare l’atteggiamento assunto da alcuni protagonisti della vicenda e segnatamente da alcuni membri del Consiglio Superiore della Magistratura.
Sorprende in particolare, e suggerisce domande alle quali sarebbe interessante ricevere risposta, l’ammissione, e nello stesso tempo una certa reticenza, del Dott. Davigo, campione della difesa della massima trasparenza e pubblicità delle azioni giudiziarie, soprattutto nella lotta alla corruzione pubblica e alle malversazioni di ogni genere. L’ammissione che sorprende è quella secondo la quale effettivamente verbali di interrogatorio sottoposti a segreto gli sarebbero stati trasmessi, ma che, nella fattispecie, non vi sarebbe nulla di illecito, perché il segreto “non è opponibile” ai membri del Csm. «La forma è il nemico giurato dell’arbitrio», diceva una grande giurista del XIX secolo (Rudolf von Jhering). E allora sarebbe forse il caso che, a quell’opinione pubblica cui viene riconosciuto il diritto a essere informata, si spiegasse in base a quali norme e procedure (quali “forme”) un componente del Csm può ricevere informazioni sottoposte a segreto ed essere esonerato da qualsiasi responsabilità.
Perché anche noi conosciamo le circolari che prevedono il potere del Consiglio di superare il segreto istruttorio, ma, se non andiamo errati, questo potere riguarda specifiche “forme” e specifici procedimenti. E riguarda soprattutto l’attività del Csm come organo (o nelle sue articolazioni collegiali), non il potere di singoli componenti, al di fuori di qualsiasi procedura, di acquisire notizie sottoposte a segreto. Perché se così fosse, se, cioè, per il solo fatto di essere componente del Csm, qualunque suo membro potesse andare in giro per procure a richiedere di esaminare tutti i fascicoli di indagine, non ci sarebbero dubbi che tale norma sia “abnorme”, illegittima, irragionevole, sproporzionata rispetto ai principi che presiedono ai processi. Essere smentiti su questo punto sarebbe un elemento di grande conforto.
Ugualmente, sorprendono le dichiarazioni di Davigo quanto al seguito che egli avrebbe dato all’acquisizioni di tali informazioni. Perché l’aver informato “chi di dovere” appare un’affermazione quantomeno reticente… E non tanto per il fatto che ci interessi sapere quali siano le persone fisiche che da lui siano state informate, ma perché interessa, e molto – proprio per evitare che i comportamenti si risolvano in arbitrio – sapere attraverso quali “forme”, seguendo quali “procedure”, in base a quali norme, egli abbia identificato “chi di dovere” e soprattutto a quali fini. Si tratta di procedure disciplinari? Di esposti davanti all’autorità penale? Di richieste di apertura di pratiche a tutela ? Di iniziative per propiziare un dibattito del Plenum?
Drammaticamente, questo è un periodo in cui la Giustizia e le sue istituzioni se la passano particolarmente male. E il rischio, agli occhi dei cittadini, ma anche agli occhi del mondo (tra cui l’Unione europea che ha appena ricevuto, dal governo Italiano, le proposte di riforma della giustizia del Pnrr) è che la sua credibilità sia definitivamente compromessa. Coloro che ne sono stati, e ne sono ancora, protagonisti, fino a farsi araldi di un ruolo quasi messianico della magistratura, dovrebbero forse fare uno sforzo maggiore per non alimentare, anche con reticenze, le ombre che si addensano sulla stessa.
Sarebbe utile, innanzitutto, per la giustizia e, poi, per evitare che si concretizzino quei fantasmi temuti dalla maggioranza dei Costituenti. I quali, se pur avessero molto a cuore la sua indipendenza erano (ad esempio, Piero Calamandrei) preoccupati che «con le norme previste, si avrebbe un corpo di magistrati completamente indipendente, il quale deciderebbe delle nomine, provvederebbe alla designazione ai vari uffici, autoeserciterebbe la disciplina e delibererebbe delle spese. Con una magistratura così chiusa e appartata, si potrebbero verificare conflitti con il potere legislativo o con quello esecutivo, in quanto la magistratura potrebbe, per esempio, rifiutarsi all’applicazione di una legge o attribuirsi il potere di stabilire criteri generali di interpretazione delle leggi». Ed era il 1946, non il 2021.
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