Nell’Antico Testamento il profeta Geremia fa dire al Dio di Israele che il suo popolo non avrà più un cuore di pietra, ma un cuore di carne – ciò che più piace a Dio. Ma quando il dolore si fa troppo grande e le conseguenze del male sembrano non arginabili, quel cuore di carne teme di soccombere e si augura una pronta trasformazione in pietra. Al centro dell’ultimo libro di Titti Marrone Se solo il mio cuore fosse di pietra (Feltrinelli, pp. 237, euro 17,50) si agita in tutte le sue possibili declinazioni il grande tema delle forme di riparazione del male, e di quel male che ci ha tolto (o dovrebbe toglierci ogni giorno) il fiato quando pensiamo all’enormità dell’olocausto ebraico.

Perché nella riparazione del male si annida sempre una specie di ambiguità: riparare il male significa superarlo, esige che, per sopravvivere, esso venga dimenticato oppure relegato a spazi circoscritti di memoria. Ambiguità accentuata quando il male è stato subito dai bambini: il libro, elaborando – con scelta acuta e felice – in forma di romanzo le tracce raccolte dall’autrice sin dal suo saggio del 2003 Meglio non sapere, racconta infatti lo sforzo rieducativo immane compiuto da Alice Goldberger, collaboratrice di Anna Freud, subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, per accogliere venticinque bambini scampati all’olocausto che, con l’orrore negli occhi, nella memoria, approdano al cottage di Lingfield, in Inghilterra. Alice e le sue collaboratrici indomite (Manna, Sophie, Gertrud) devono imparare a comprendere come ricostruire il fondamentale patto di fiducia reciproca tra mondo adulto e mondo bambino, devastato dalla crudeltà dei campi di sterminio o dei rifugi dove alcuni di loro, tra case private, orfanotrofi e conventi, sono stati rinchiusi, talvolta per anni.

Questo lavoro di comprensione, compassione, presa in carico e cura sempre sfibrante, sovente frustrante, è l’argine riparatorio alle conseguenze del male inferto ai bambini: Titti Marrone traduce questo pendolo motivico nello sguardo del narratore, nello stile stesso del racconto, che lavora in profondità sul lato emotivo e limita, sempre, la facile commozione, lusso che Alice non si concesse mai e che mai, a se stessa e a noi lettori, concede l’autrice. Ciò che più colpisce di queste pagine, forse, al di là dei racconti terrificanti delle storie dei bambini e dei modi per affrontare la loro nuova vita, la loro nuova storia (talvolta il loro nuovo nome), è il suono, remoto, ma compatto e ineludibile, da basso continuo, della solitudine. Di una duplice solitudine.

Non solo quella dei bambini sopravvissuti, affrontata prima che ebbero la sorte di arrivare a Lingfield: quella, ad esempio, di Mirjam Stern, che visse due anni da sola nello stretto spazio di un nascondiglio ricavato alle spalle di un armadio, e che rischiò, svenuta per stenti, di essere seppellita viva. Vi è anche la solitudine dei morti, di chi non ce la fece, genitori strappati ai figli e bambini privati dei genitori, la cui vita fu calpestata senza pietà: come quella di Sergio De Simone che, nel sogno del capitolo di apertura, pronuncia quella terribile frase, monito che non può e deve tramontare mai: “Io non verrò mai da te”.