La rifondazione del movimento
M5S, è guerra per la successione: Di Battista, Fico o Conte?

Luigi Di Maio lascia a Vito Crimi, come anticipato ieri dal Riformista, l’incarico di Capo politico del Movimento Cinque Stelle. È il primo leader ad assumere l’iniziativa delle “dimissioni preventive”, rispetto all’esito prevedibilmente infelice delle urne di domenica. Se ne va per non metterci troppo la faccia, la sera della doppia irrilevanza, in Emilia-Romagna e Calabria. Ma anche perché il Movimento è in rivolta per una gestione inadeguata, con scarsa o nulla attività di coinvolgimento dei parlamentari. I deputati e i senatori, pardon: i portavoce dei cittadini sono costretti a vivere come polli in batteria, spremuti a suon di rendiconti e scontrini e regolati da una selva di regole e di divieti imposti dalla casa-madre. Perfino la volontà di esprimere un voto “ribelle” è oggetto di reprimende, anzi di scomuniche.
«I peggiori nemici si annidano al nostro interno», sibila Di Maio dimettendosi. La crisi nasce da lontano, con l’evidente debolezza di una leadership imposta dalla Casaleggio, e che non ha mai convinto Beppe Grillo. Lo ammette lo stesso Di Maio, abbandonandosi all’amarcord non richiesta delle sue diapositive romane. «Arrivai a Roma appena eletto deputato, avevo 26 anni, non conoscevo nessuno e mi affidarono subito l’incarico di Vice Presidente della Camera, il più giovane della storia», ripercorre quasi fosse anche lui ancora sorpreso da quell’improvviso tornante della buona sorte. E poi: «A volte in questo ruolo ho fatto scelte che sono parse incomprensibili», ammette.
Ma si assolve: «È perché sono un ragazzo riservato». Frutto della sua riservatezza sarebbero dunque state le note scivolate di questi due anni e mezzo alla testa del M5s: la richiesta di mettere in stato di accusa il presidente Mattarella, per rimangiarsi tutto con mille scuse il giorno dopo; oppure il clamoroso show in cui ha gridato che il “Pd a Bibbiano tortura i bambini con l’elettrochoc”. Non erano dabbenaggini, ma frutto di un carattere introverso. La scarsa tempra c’era, sì. E la si è vista nella impari diarchia con Matteo Salvini, al quale aveva di fatto consegnato l’iniziativa di governo. Adesso rimane un Movimento in ritirata, diviso su tutto e incapace di indicare una rotta. Con i tanti parlamentari che si sono sottratti al diktat interno della rendicontazione deferiti ai probiviri: sono ventitré i parlamentari eletti con i Cinque Stelle che Di Maio ha perso cammin facendo.
La strada verso gli Stati Generali di metà marzo adesso è tutta in salita. Il membro anziano del Comitato di garanzia, Vito Crimi, dovrà fare i conti con gli appetiti dei pretendenti al trono di primavera: c’è chi fa il nome di Di Battista, chi punta su Patuanelli, chi ricorda il ruolo di Taverna (“un uomo solo al comando non è nelle nostre corde”), chi rilancia sul presidente della Camera, Roberto Fico. Emilio Carelli archivia il passato: «Non c’è un passo indietro, anzi oggi il Movimento fa un passo avanti». Certamente qualcuno dovrà farsi avanti come capo delegazione al Governo. Perché Di Maio è appena uscito dal Tempio di Adriano, con gli occhi lucidi, che già gli altri banchettano. «Luigi Di Maio non è più il capo delegazione del governo», annuncia Crimi. Il ministro D’Incà si affretta a dire che va tutto bene, ma sa bene che il problema è serio. Il presidente del Consiglio non è eletto da un partito, e il soggetto politico più votato alle elezioni non ha un suo rappresentante al governo. Il ministro degli Esteri appare dimezzato, nella sua autorevolezza, in un momento così delicato per gli equilibri internazionali.
Fuori, le piazze si popolano di manifestanti: nuovi movimenti spuntano e si rafforzano. In Emilia gli ultimi sprazzi di campagna elettorale sono delle Sardine, che in molti associano alla spontaneità genuina dei primi MeetUp grillini. Mattia Santori si appresta a fare un bagno fuori stagione a Milano Marittima, in quel Papeete che fu esiziale per Salvini. A Roma gli autoconvocati delle Partite Iva affollano piazza del Popolo e si danno appuntamento al 15 febbraio per dare vita al Movimento Liberisti di Andrea Bernaudo, un nuovo soggetto forte di molte migliaia di aderenti. Di Maio ha appena chiuso una fase e per la politica si apre già un’altra era.
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