Lo spettacolo dedicato al leader Dc
“Moro un meteorite, non dimentichiamo il passato”, parla Fabrizio Gifuni
«Che cosa sto facendo con le lettere di Aldo Moro? Un un esperimento», ci dice Fabrizio Gifuni, che interrompiamo mentre prova Con il vostro irridente silenzio, un reading dedicato al memoriale di Moro. Siamo al teatro Vascello di Roma, quel tempio laico dell’impegno civile in cui Pasolini e Flaiano si passarono il testimone. E dove gli Intillimani, in concerto, appresero del golpe contro Allende nel ’73. «L’esperimento consiste in questo: nel depositare al centro della scena una sorta di meteorite venuto dal passato, per condividerlo con il pubblico. E verificare sera per sera se queste carte ci riguardano ancora o se sono solo nomi indecifrabili e lontani. Perché nella nostra storia si è verificata una frattura importante con la memoria. Hanno iniziato a dirci che non deve interessarci più nulla di quanto avvenuto venti o trent’anni fa, che ci sono troppe vicende divisive».
Quasi tre ore di lettura impegnata, appassionata. E tante persone che tornano in teatro, per la prima volta dopo il Covid. Un bel riconoscimento per lei.
Il merito va a chi ha scritto il testo. Mi limito a dargli voce, provando a emularne l’accento, a ipotizzarne il tono.
Dà nuova vita a quelle carte. Perché?
Perché non mi arrendo all’idea che bisogna dimenticare il passato, a questa idea di “occuparsi di cose concrete” che ha la vulgata politica. Perché attraverso questo esperimento vorrei provocare un risveglio in qualche coscienza. E tornare a mettere nelle orecchie del pubblico un linguaggio di peso, di gravità, di spessore.
Contro quello troppo leggero, etereo della politica di oggi?
È sotto gli occhi di tutti: se vogliamo partire dalle parole, una lingua vuota, confusa, in cui a forza di semplificare non è rimasto più nulla. Una lingua aggressiva, violenta, cui hanno contribuito sicuramente anche i nuovi media. Ma a cui tutto il sistema dell’informazione si è adeguato.
E dunque attraverso la sua voce ci torna a trovare Aldo Moro.
Con una lingua complessa, alta ma chiarissima. Contrariamente a quello che ci è stato raccontato. Si è detto che Moro parlava per riferimenti criptici, per iperboli. Al contrario, parlava per farsi capire bene da tutti. È come se in quei 55 giorni Moro avesse concentrato tutto l’arcobaleno delle pulsioni umane, dal ragionamento politico lucido, implacabile, alla ricostruzione della storia d’Italia. Una lingua che a tratti si fa violenta, in maniera sorprendente. Perché l’idea che abbiamo, quella di un martire che affronta un calvario, non riduce al silenzio l’uomo che si sente tradito e abbandonato.
Lei è un attore cresciuto a pane e politica. Una passione trasmessa da suo padre?
Mio padre, Gaetano, è stato il più giovane segretario generale del Senato, carica che rivestiva nel 1978 durante la prigionia di Moro. Il Presidente del Senato era Amintore Fanfani. E poi papà andò al Quirinale, fu Segretario generale della Presidenza della Repubblica con Scalfaro e con Ciampi. Mi ha trasmesso passione civile, certamente…
E anche qualche informazione, su quel periodo?
Sono cresciuto con la consapevolezza che si sarebbe potuto fare qualcosa che non si è fatto, per salvare la vita di Aldo Moro. Tra i socialisti, che all’epoca erano più possibilisti sulla trattativa, c’era un ex ministro di gran peso che aveva un contatto privilegiato con Autonomia Operaia, il cui capo era in grado di parlare direttamente con il capo delle Brigate Rosse. C’erano delle linee sotterranee che pure non si vollero percorrere. Ma c’è qualcuno che continua a parlarci, se gli prestiamo orecchio: Aldo Moro.
In quelle carte, che non prendiamoci in giro, qualcuno ha voluto far ritrovare qualche anno fa, Moro ci indica informazioni, nomi e vicende che sta a noi mettere insieme. Ed è quello che invito a fare con la performance di questi giorni, al Vascello.
Il memoriale di Moro viene trovato, o fatto trovare, nel 1990 a Milano.
Il covo Br di via Monte Nevoso era stato individuato nel ’78 e setacciato a fondo, per cinque giorni consecutivi, dagli uomini del generale Dalla Chiesa. Non trovano niente. L’appartamento viene venduto e il nuovo proprietario, nel 1990, manda un muratore. Quello comincia i lavori e nota una strana difformità sotto a una finestra. Toglie quattro chiodi e un pannello di cartongesso e ritrova uno spazio nascosto contenente un mitra avvolto in un giornale del 1978, parecchie decine di banconote fuoricorso, armi e munizioni e 229 pagine fotocopiate del Memoriale Moro. Ed eccolo, ogni sera ne darò lettura per capire come reagisce il pubblico, quali riflessioni ingenera.
Quali riflessioni muove?
Ha messo a nudo il lato debole della Ragion di Stato. Ci torna più volte, anche nelle ultime lettere, quando ad esempio svela il Lodo Moro, che era uno dei grandi segreti internazionali, e che consiste nel lasciapassare per armi e uomini cari ai palestinesi in Italia. Scrive a Pennacchini, che allora presiede il Comitato di controllo dei servizi di sicurezza, e gli dice: «Lo sai benissimo quel che abbiamo scritto insieme, io e te, in un accordo segretissimo. Perché non fai valere quegli accordi adesso che contano per salvare me? Perché tanti anni dopo Beccaria, si reintroduce la pena di morte su di me?».
Altra cosa che mi ha colpito profondamente è il valore politico di questi scritti. C’è una domanda sola alla quale i brigatisti neanche oggi sanno o vogliono rispondere. Moro parlava. Di tutto. Di strategia della tensione, di Piazza Fontana, del ruolo della Cia in Italia, dell’operazione Gladio e Stay Behind, di finanziamenti illeciti alla politica, di Michele Sindona. Non c’è domanda cui Moro non ha risposto. E in uno dei primi comunicati delle Br loro dicevano: «Il prigioniero sta collaborando. Tutto verrà reso noto al popolo». Perché non hanno reso noto nulla, se non dieci paginette che escono con i primi comunicati?
Quale è la risposta?
La mia risposta è che il vero oggetto della trattativa sono state le carte di Moro, non il corpo di Moro. Del suo corpo non interessava più nulla a nessuno, a un certo punto. La vera ossessione erano queste carte. Mettere le mani su queste carte, che custodiscono segreti importanti.
Nel memoriale però non c’è tutto. Mancano delle pagine.
Questo memoriale è un tesoro parlante, e le carte che mancano sono state ricostruite dagli storici con incroci di documenti e testimonianze. Su questo memoriale aveva lavorato Mino Pecorelli, che poi venne ucciso in circostanze mai chiarite. E oltre a lui ci aveva lavorato, appunto cercandolo ossessivamente, il generale Dalla Chiesa. Anche lui ucciso pochi anni dopo, nel 1982 a Palermo, dove era appena arrivato. E tra gli uomini di Dalla Chiesa incaricati di cercare il memoriale c’era il generale dei Carabinieri Enrico Riziero Galvaligi, ucciso dalle Br nel 1980. Una scia di sangue dietro a quelle lettere. Una maledizione contro cui dobbiamo accendere un faro. E io ci provo, con l’occhio di bue che illumina la scena.
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