La democrazia non è uno spazio pubblicitario
Musk contro Trump, la frattura dentro il loro stesso caos

Non c’era bisogno di consultare l’oracolo di Delfi per prevedere la fine annunciata del sodalizio tra Trump e Musk e mi rifiuto di pensare che i lettori fossero davvero convinti che questi due “ego-megalomani” – fortemente disturbati – fossero in grado di reggere alla prova di governo. L’idea infatti che i due narcisi potessero sostenere una visione coerente del mondo o collaborare stabilmente appariva fin dall’inizio una pia illusione: condividevano a monte ben poco, uniti solo dall’essere patologicamente persone con un ego ipertrofico e una propensione spregiudicata al profitto personale.
Unfit avrebbe titolato l’Economist, e come spesso accade con gli accoppiamenti d’interesse, la resa dei conti è arrivata inesorabile.
Il legame tra Musk e Trump, celebrato con entusiasmo da certa stampa americana come la possibile alleanza tra libertarismo hi-tech e populismo reazionario, si è rivelato per ciò che era: una dualità cleptocrate e predatoria, un matrimonio d’interesse fondato sull’opportunismo più becero e sulla convinzione – errata – che il potere si possa amministrare come un’azienda familiare. La realtà ha presentato il conto in fretta.
Trump, già ribattezzato dai suoi detrattori “TACO” – acronimo per “Trump Always Chickens Out” tradotto con “cazzaro” ma più elegante – continua a offrire il meglio di sé in un crescendo tragicomico di decisioni avventate, proclami smentiti nel giro di poche ore e post compulsivi. Ha minacciato guerre commerciali con mezzo mondo, soprattutto con la Cina a colpi di grafici errati, promesso un America isolazionista salvo poi genuflettersi a chiunque gli garantisse vantaggi personali, come l’ormai celebre scambio di favori con il Qatar per un jet di lusso. Per inciso, la Cina gli ha intimato di non pagare più il debito pubblico statunitense e Donald se l’è fatta addosso per paura del tracollo del dollaro. Si è capito, a quel punto, che eravamo dinanzi ad un presidente che agisce in totale disprezzo dei mercati, del diritto e persino del buon senso, con pratiche che sfiorano l’insider trading e screditano l’istituzione che rappresenta. Oggi si ha ormai la sensazione di una Casa Bianca sempre più simile a un bunker digitale da cui partono invettive scomposte contro università, media e centri di ricerca, tra meme autoreferenziali e minacce di censura. L’amministrazione Trump si è ridotta a un flusso social isterico, in cui la realtà si piega ai deliri del suo presidente e da un contesto politico avvilente ed evanescente (ci si domanda in lacrime dove stiano i democratici e i repubblicani mentre la casa va a fuoco).
In questo scenario già farsesco, Elon Musk oggi si atteggia a deluso e indignato. Ma ieri? Davvero il visionario miliardario, che possiede o controlla una buona parte dei satelliti in orbita attorno al pianeta, non aveva previsto il disastro imminente? Che l’uomo che ambisce a colonizzare Marte non sapesse di inquietanti scheletri nell’armadio del suo presidente – salvo poi brandirli – è un insulto alla logica. Forse Musk non immaginava che la sua piattaforma e il suo stesso essere “brand” potesse diventare il megafono preferito della paranoia trumpiana, né che le sue uscite da libertario anti-woke potessero fare da sponda a una regressione culturale ben più vasta. Ma ora, che si atteggia a paladino della ragione, altro non è che un Ceo che ha bisogno di fare guadagni, brutti sporchi e subito visto che Tesla è in caduta libera. Quindi non chiamatelo martire, vi prego.
Alla base della crisi americana (e così nelle altre destre sovraniste occidentali) c’è l’ostinazione a sopravvalutarsi come Icaro che tende di volare verso il sole con le ali di cera. Nel loro spazio narrativo la collettività e i suoi corpi democratici interni (informazione, magistratura, comunità accademiche, partiti di opposizione) non sono attori sani della dialettica democratico bensì un ostacolo nel raggiungere miseri interessi privati.
Il problema, però, è che la democrazia non è uno spazio pubblicitario, e la cosa pubblica non si amministra a colpi di meme e slogan. Per stare alla geopolitica, promettere di risolvere le guerre in 48 ore sapendo di mentire e pensando che gli altri ci cascano, è puerile oltreché mortificante per una potenza come gli Stati Uniti, e non a caso sia Cina che Russia hanno capito che a Washington risiede un leader mediocre e se la ridono di gusto.
Quello che Trump e Musk rappresentano – in forme diverse – è una degenerazione del potere politico costruito sulle spalle di un’America divisa, impoverita e sempre più stanca di essere trattata come un giocattolo rotto da chi gioca a fare il padrone del mondo.
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