Ci sono le cose e le rappresentazioni delle cose. Ci sono i fatti e le loro messe in scena. Un grattacielo, per dire, è una cosa. Un rendering di un grattacielo è una mera rappresentazione anticipatoria. E così un teatro o un auditorium sarebbero cose, i murales di Totò e di Caruso sono semplici messe in scena. Sono evocazioni, rimandi, allusioni. Analogamente, una casa per giovani musicisti sarebbe un fatto, una strada intitolata a Pino Daniele ne è invece un comodo e spicciolo surrogato simbolico. E questa è oggi Napoli: una delle poche città d’Italia dove l’urgenza di ripensare l’assetto urbano dopo il lockdown è durata lo spazio di un mattino. Il centro storico da riprogettare senza turisti, i nuovi spazi pubblici per socializzare, gli uffici svuotati dallo smart working e dunque da organizzare diversamente, la mobilità, i servizi: insomma, era lungo la elenco dei temi su cui si era aperta la discussione e su cui sembrava possibile convogliare energie e risorse. Ma passato il momento di massima tensione ideale, ora tutto il dibattito sembra essersi spostato non sulle cose da fare, ma su quelle da rappresentare, magari con un faccione su un muro o una targa all’angolo di una strada.

Tuttavia, a pretendere di cambiare la città con i murales e con la toponomastica si rischia di far ridere o di apparire patetici. Le buone intenzioni qui non c’entrano, la qualità dei segni grafici neanche, e ancor di più è in discussione il valore delle personalità a cui vogliamo intestare una piazza o un luogo della città. Ma non è celebrando il nome o il volto di Totò o mettendoli su un muro, che estingueremo il debito con lui. Dov’è il museo che da decenni la città si è impegnata a dedicargli? Possibile che ancora non se ne venga a capo? E dov’è quello di Caruso, di cui neanche si è cominciato a parlare? E quello della musica napoletana? E che fine hanno fatto le altre idee che di recente pure sono state messe in campo con generosa immaginazione?

È facile, oggi, chiudere i conti con Luciano De Crescenzo, dedicandogli una strada. Più difficile è dare un senso a un’intera area progettata come centrale e poi finita, dopo ogni tramonto, ai margini della città. Personalmente, sto ancora aspettando che il Comune promuova un progetto per dirottare la movida nel Centro direzionale. Il sindaco si era impegnato a farlo, quando però aveva le mani legate dalle norme anti-virus. E ora che gli è stata riconsegnata la competenza sottrattagli, cosa aspetta? Il lungomare senza auto, tanto per essere equilibrati nel giudizio, è stato un fatto; viceversa, un maxi-poster del lungomare in un giorno di blocco del traffico non sarebbe stata la stessa cosa. Ieri, l’edizione milanese di Repubblica ospitava un’intervista a Carlo Ratti, l’architetto-ingegnere che da anni studia il futuro delle aree urbane.

Il tema era quello della città flessibile e verde, dei palazzi pensati come vigne e boschi condominiali, dei trasporti rimodulati per andare comodamente a teatro o a un foam party (a proposito, se ne organizzano anche a Napoli?). Certo, parliamo di Milano, la città di Giulia Maria Crespi, la signora del Fai recentemente scomparsa, una rappresentante di primissimo piano della borghesia lombarda e della storia culturale italiana. Eppure, è significativo che a Ratti, impegnato in una riflessione sul futuro della sua città, l’idea di un murale da dedicare alla signora Crespi non sia neanche venuta in mente.