Inaugurare una rubrica che si chiama “Parole” con la parola “Napoli” è esercizio altamente pericoloso. Lo faccio – ammetto, con un certo opportunismo – solo perché immagino che un po’ di lettori di questo giornale oggi siano nella mia città per un convegno politico.

Perché è un azzardo parlare di Napoli? Perché da qualunque parte prendi il tema, i luoghi comuni sono sempre in agguato. E si sa che i luoghi comuni sono i peggiori nemici delle parole e delle cose ad esse relative. Distorcono, mitizzano, ossificano. E così consegnano le parole a significati impropri, a generalizzazioni sempre indebite, fino a farle diventare quasi non più pronunciabili.

Si dirà che questo è il destino che tocca alle parole e alle cose importanti. Ce lo ricorda l’aneddoto – veritiero e verificato – di un senatore napoletano, Carlo Fermariello, interrotto da un collega mentre in un crocicchio si parlava di una legge speciale per Napoli dopo il colera del 1973. «Eh, ma qui si parla solo di Napoli…», disse l’incauto parlamentare che, per di più, a domanda di un astante («Scusa collega, tu di dove sei?»), rispose con fierezza: «Sono di Treviso!». E fu gelato dallo stesso Fermariello: «Bene, e parliamo di Treviso allora…». La cosa finì, come è ovvio, tra risate e sfottò, e derubricando per sempre la bella Treviso ad argomento di nessun rilievo.

Invece Napoli riceve la condanna opposta. Non manca mai qualcosa da dire sulla città: le sue bellezze, la storia, il clima, il cibo. E sui suoi abitanti: simpatici, arguti, furbi. Considerazioni cui un tempo si giustapponeva almeno quel «certo però, quanti problemi… (la criminalità, il disordine, il traffico, etc…)» che creava un po’ di equilibrio nei giudizi.
Mentre oggi l’orgia della perenne, giuliva invasione turistica fa passare in cavalleria il resto. E ridefinisce, spesso rovescia i ruoli. Con quelli che la visitano per tre-quattro giorni e non fanno che strabuzzare gli occhi per la meraviglia. E i malcapitati che ci vivono costretti a ricordare timidamente le «cose che non vanno», per usare un blando eufemismo.

Come sarebbe bello se di Napoli si parlasse meno. Se la città la smettesse di crogiolarsi nei giudizi altrui, che affrontasse alla radice i suoi problemi. Che la smettesse di autocelebrarsi guardandosi l’ombelico e si riconosca per quello che è: una città di medie dimensioni, con un passato glorioso e un presente declinante, immersa in un Sud che arranca e in un paese che da decenni ha perso il treno della modernità. E comunque, se proprio non fossimo in grado di darci ambiziosi programmi per il futuro, come sarebbe bello se almeno tutti facessimo nostra la saggezza – napoletanissima – dell’antico detto: «‘a meglia parola è chella ca nun se dice».

Claudio Velardi

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