Milano 47,72% (contro il 54,65% del 2016, meno 12,68%); Roma 48,83% (57,03%, -14,37%); Torino 48,08% (57,18%, -15,91%); Napoli 47,17% (54,12%, -12,84%); Bologna 51,18% (59,66%, -14,21%). Complessivamente in Italia alle amministrative ha votato il 54,7% degli aventi diritto al voto contro il 61,58% delle elezioni precedenti (-11,17%). Il che significa – visto che dietro i freddi numeri ci sono persone con il loro vissuto e le loro scelte – che, dei 12.147.040 che avrebbero potuto, hanno votato appena 6.633.491 elettori, circa 850 mila in meno rispetto alla precedente tornata elettorale. E non sappiamo quanti di costoro hanno depositato nell’urna scheda bianca o nulla…

Per trovare questi dati non ho consultato i quotidiani di ieri, prevalentemente intenti a commentare vincitori e vinti della tornata elettorale, ma il sito del ministero dell’Interno. Il che già dimostra quanta attenzione viene dedicata al tema dell’astensionismo elettorale: giusto il tempo di aprirci le pagine il lunedì mattina o, nei talk-show elettorali, di chiacchierarci su prima della chiusura delle urne per poi scatenarsi a commentare i primi exit-poll: ne riparleremo alle prossime elezioni! Ed invece, sfondando al ribasso la soglia psicologica del 50%, l’astensionismo elettorale ha superato il livello di guardia e si pone oggi in termini allarmanti di vera e propria emergenza democratica. Inutile girarci intorno: una classe politico-amministrativa che rappresenta meno della metà degli elettori pone un serio problema di legittimazione democratica delle istituzioni di rappresentanza politica.

Ciò tanto più ove si consideri che, come i dati inequivocabilmente dimostrano, siamo di fronte ad una tendenza di lungo periodo che, elezione dopo elezione, peggiora, senza alcuna significativa inversione di tendenza (al massimo, come nelle regionali calabre, di tenuta: 44,36% contro il 44,33% del 2020). Quali le cause di questo crollo? Non certo l’irrilevanza delle elezioni, dato che il Comune è l’ente di governo più prossimo ai cittadini che ad esso quindi si rivolgono per primo per soddisfare i loro legittimi interessi e bisogni. Non certo l’impossibilità di scegliere il candidato da eleggere, visto che a livello locale e regionale è previsto il voto di preferenza. Non certo, infine, lo scarso peso politico del voto. Grazie all’elezione diretta del Sindaco ed al premio di maggioranza attribuito alle liste collegate, gli elettori sono in grado di decidere l’indirizzo politico-amministrativo del loro Comune per i successivi cinque anni.

Invocare come rimedio all’astensionismo elettorale il ritorno al bipolarismo, come scrive ieri Veltroni sul Corriere, mi sembra un’osservazione “fuori fuoco” (tanto per usare una terminologia a lui cara), dato che gli elettori rinunciano a votare anche quando la scelta del governo delle loro città produce ovviamente il massimo della bipolarizzazione. Anzi, è facile pronosticare che nel ballottaggio l’astensionismo aumenterà perché gli elettori che non si riconoscono nei due candidati preferiranno non andare a votare. Del resto, che, al contrario, un sistema parlamentare compromissorio possa comunque produrre un’offerta politica complessivamente apprezzata dagli elettori lo dimostrano le elezioni tedesche dello scorso 26 settembre, dove ha votato il 76,8% degli aventi diritto, con un modesto ma significativo incremento dello 0,6%.

E allora? A mio modesto parere alla radice dell’astensionismo elettorale c’è un problema di serietà della politica, che è serietà innanzi tutto della classe dirigente, dei suoi comportamenti pre e post elettorali (penso ai casi di cambi-casacca, quanto mai diffusi a livello locale…) nonché dei metodi con cui essa seleziona le candidature, spesso paracadutando illustri sconosciuti (salvo piangere oggi lacrime di coccodrillo). Con tutto il rispetto che si deve all’esercizio della sovranità popolare, mi chiedo se sia democrazia trovarsi in cabina con schede elettorali “lenzuolo” (difficili da ripiegare per chi non è pratico di origami…), in cui sono presenti decine di liste cosiddette civiche prive di una qualunque identità politico-programmatica che non sia quella di essere solo strumento per candidare quante più persone possibili in grado, grazie ad amici e parenti, di portare voti al candidato Sindaco collegato in cambio magari di qualche favore futuro. Sotto questo profilo andrebbe aperta una riflessione sia sulle firme necessarie per presentare una lista, sia soprattutto sulla irrilevanza dei voti dati a liste al di sotto di un pur minimo quorum.

Le recenti mobilitazioni referendarie, per quanto non vadano sopravvalutate, dimostrano che c’è ancora una domanda di partecipazione politica che i partiti politici non riescono ad intercettare essenzialmente perché assenti nei territori (giustappunto comunali), sia perché talora convinti di poter disintermediare le strutture locali grazie alla comunicazione (unidirezionale, s’intende) della Rete, sia a causa della sciagurata riforma del finanziamento pubblico che ha tolto loro risorse vitali (fare politica costa, e chi lo nega è un ipocrita), buttando così l’acqua con tutto il bambino. Tempo fa, per rappresentare plasticamente l’astensionismo, i radicali proposero che il numero degli eletti fosse proporzionale agli elettori, cosicché, ad esempio, se vota il 50% degli elettori dovrebbe essere eletto il 50% dei componenti dell’assemblea elettiva. Al di là della provocazione (e dell’ossimoro), anziché entusiasmarsi o avvilirsi per il risultato conseguito, le forze politiche farebbero comunque bene a non ignorare questo ennesimo, estremamente preoccupante campanello d’allarme per la tenuta della nostra democrazia, se finalmente vogliono guardare la luna, anziché il dito che la indica.