Il popolo ha parlato e, quando periodicamente lo fa, ha sempre ragione, almeno nel senso che è il decisore di ultima istanza, il cui voto sarebbe inutile e sciocco discutere, mentre va piuttosto interpretato. Tra quelli che hanno scelto di andare al seggio, ossia più o meno la metà degli elettori, la città incorona come suo “re pro tempore” un personaggio “freddo”, molto diverso da quelli che in passato (da Achille Lauro all’Antonio Bassolino dei tempi belli, fino al “sindaco con la bandana” Luigi de Magistris) lo hanno sedotto. Perché? È chiaro che dopo la pandemia non è più il momento della protesta, ma quello della ricostruzione. Da un lato occorre proteggersi dalla crisi, per i ceti più deboli, di ritrovare come campare; dall’altro, per la classe dirigente, bisogna mettersi nelle condizioni di intercettare i soldi dell’Europa con una buona amministrazione, dato che non possono essere sprecati e in parte andranno in seguito restituiti. I capi e una parte del voto pentastellato hanno così da tempo accettato di cambiare passo, un’altra si è stavolta rifugiata nell’astensione, infittendo la schiera sempre comunque folta degli scettici e dei disillusi irrecuperabili.
Gaetano Manfredi, l’ingegnere nolano spesso in grisaglia, di elevato profilo tecnico e che vanta ottimi rapporti con la maggiore università cittadina, di cui è stato rettore e dalla quale potrà pescare consulenti e collaboratori, non è Mario Draghi al quale ha dichiarato di ispirarsi. È semmai il frutto dell’incontro politico tra Giuseppe Conte ed Enrico Letta (altrove non riuscito o nemmeno tentato, ma beninteso coi Cinque Stelle in calando, come socio minore), che garantisce l’obiettivo e buoni rapporti con Vincenzo De Luca, altro – il vero? – regista dell’operazione, col quale i disegni romani non potevano evitare di confrontarsi e venire a patti. Resta a piedi Catello Maresca, vittima di troppe incertezze all’inizio e durante la campagna elettorale, nel difficile e non trovato equilibrio tra la propria autonomia di candidato “civico” e l’essere espressione dei partiti di riferimento, ma soprattutto è evidente che la destra ha – non solo in Campania – un problema, ossia quello di costruire una classe dirigente competitiva, se davvero aspira a governare. Un cognome lo aveva, a Napoli: quello di Sergio Rastrelli, il figlio del defunto presidente della Regione Antonio. Si tratta di una famiglia di galantuomini stimati anche oltre le loro fila, ma le rivalità interne a questa parte del campo hanno fatto sprecare ancora una volta l’occasione.
Antonio Bassolino ha tentato di smuovere il cuore delle persone, ma questi sono tempi unicamente razionali, di puro calcolo. Onore a lui e a chi l’ha votato: consensi sudati, uno per uno e un’esperienza con cui sarebbe stolto rinunciare adesso a dialogare. La delusione di Alessandra Clemente, infine, si deve ai tradimenti e ai trasformismi nel suo campo e perfino del suo antico mentore e dei propri familiari: lo stesso de Magistris, in Calabria, sembra arrivato al capolinea e dice di volersi ritirare fino a dicembre per pensare al da farsi. Come ho scritto, viviamo una stagione diversa, ma lei è giovane e può ancora venire recuperata in un disegno diverso e di modernizzazione, entro il quale la città, com’è chiaro, vuole ripartire.