Il presidente della Camera Roberto Fico, i ministri Luigi Di Maio e Andrea Orlando, il leader pentastellato Giuseppe Conte e la deputata di Italia Viva Maria Elena Boschi: tutti insieme appassionatamente, ieri a Napoli, per la chiusura della campagna elettorale per le comunali. Chi ha assistito alla “parata” dei leader, deve aver pensato a Napoli come alla nuova capitale della politica italiana. In realtà, molto probabilmente, ai big interessa poco o nulla delle sorti del capoluogo campano, delle sue finanze dissestate o dei servizi a cittadini e imprese pressoché azzerati. Napoli, però, resta una pedina fondamentale nello scacchiere politico italiano. E ciò fa sì che quasi tutti i partiti giochino in città una partita che ha come unico obiettivo il rafforzamento a livello nazionale.

L’esempio lampante è quello di Conte, ieri al fianco del candidato sindaco di centrosinistra Gaetano Manfredi: «Il voto sarà un passaggio importante – ha detto dal palco di piazza Dante – per il futuro di Napoli e anche in chiave nazionale». L’ex presidente del Consiglio ha aperto e chiuso la campagna elettorale di Manfredi e, nel corso delle ultime settimane, è tornato più volte a Napoli e in altre città della Campania. Il motivo? Semplice: Giuseppi è alle prese con un partito che, in tre anni, ha accusato un’evidente emorragia di consensi che ora va in qualche modo arrestata. L’ideale sarebbe la rielezione di Virginia Raggi a Roma ma, se questo obiettivo non dovesse essere centrato, una vittoria a Napoli, sebbene in compartecipazione col Partito democratico, sarebbe una boccata di ossigeno: gli consentirebbe di consolidare una leadership traballante e di risolvere il rebus che agita il suo partito, dilaniato tra quanti desiderano un ritorno alla “purezza” delle origini e chi invece spinge per strutturare un’alleanza col Pd contro il centrodestra.

Ed è questa, d’altra parte, la strategia che ha indicato il ministro Andrea Orlando, ieri impegnato in un comizio a Scampia:  «Mi preoccupano Giorgia Meloni e Matteo Salvini – ha detto – L’accordo tra il Pd e il M5S è l’unica strada per arginarli». Non è un mistero che i democrat vedano in Napoli un laboratorio politico. Non a caso il capoluogo campano è l’unico in cui il Pd abbia scelto di fare corsa comune con il M5S. L’obiettivo è verificare la tenuta e le prospettive di un’alleanza che Orlando ha annunciato in tutte le città al voto in caso di ballottaggio e che Roberto Fico ha indicato come strategia in vista delle elezioni politiche del 2023. Intendiamoci: oltre che ministro in carica, Orlando è un big del Pd con un passato da commissario del circolo dem partenopeo. La realtà napoletana, quindi, la conosce bene e la sua presenza in città è significativa. Ma chi guarda a Napoli con grande interesse, sebbene ieri non fosse in città, è il segretario dem Enrico Letta che punta a colorare di giallorosso le amministrazioni di almeno tre grandi città al voto: “mettere le mani” su Napoli sarebbe importante per un leader che spera di non essere fagocitato da quello che Roberto Gressi ha giustamente definito «l’istinto cannibale del Pd».

E la destra? Per Napoli è una battaglia persa. Ieri il candidato sindaco Catello Maresca ha concluso la sua travagliata campagna elettorale con un tour in alcuni luoghi simbolo della città. Al suo fianco tanti militanti, ma dei leader dei partiti è arrivato a sostenerlo solo Antonio Tajani di Forza Italia. Nemmeno l’ombra di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. La sensazione è che Napoli non interessi ai due leader rampanti della destra. Di sicuro non a Salvini, che dopo la bocciatura della lista Prima Napoli, ha optato per una “ritirata strategica”, e nemmeno alla Meloni, preoccupata  solo dal risultato del “suo” candidato Enrico Michetti a Roma e dal rafforzamento di Fdi come primo partito della coalizione.

In tutto questo Napoli che fine fa? Poche, nel corso della campagna elettorale, sono state le proposte serie per il rilancio della città. Napoli è stata ridotta prima a merce di scambio tra partiti, poi a pedina da muovere a seconda delle esigenze dei loro leader. Per il resto soltanto polemiche e confusione che hanno trasformato quella che si annunciava come la campagna elettorale più ricca di contenuti degli ultimi anni in uno psicodramma in cui leader e partiti hanno offerto pessima prova di sé. Stando così le cose, non ci sarà da meravigliarsi qualora lunedì l’astensionismo dovesse confermarsi a livelli da guinness dei primati come nelle scorse tornate elettorali.