Che cosa resterà di una campagna elettorale che avrebbe dovuto segnare l’inizio del riscatto della città di Napoli? Tanta bruttezza. Il timore e il rifiuto di dirsi politici con tardivi e timidi accenni di dietrofront, il kitsch dei bagni di folla e delle fotografie nelle pizzerie, le faide tra bande che hanno fatto da preludio alle liste escluse, i trasformismi e i mercati delle vacche di ogni genere, i 10mila candidati, la saga delle esternazioni bislacche e inopportune, i progetti presentati negli ultimi giorni e quasi per un pro forma, di cui i napoletani non sanno e non hanno compreso nulla. Chiunque abbia seguito con una certa attenzione la campagna elettorale può giocare a trovare l’eccezione, la bella politica.

Il paragone con le campagne elettorali di altre grandi città, in cui il contesto di crisi della politica è generalizzato, è impietoso. Il declino inesorabile di Napoli meritava un’altra campagna elettorale, con un tono molto più dignitoso e appassionato. Invece la classe politica si è adeguata al tono depresso e disperato della città. Una città al secondo posto in Italia, dopo Crotone, per percettori (in rapporto agli abitanti) di reddito o pensione di cittadinanza: circa 150mila persone ne vivono (i dati sono su base provinciale, quindi per la città debbono essere dedotti per approssimazione) su una popolazione inferiore al milione di abitanti. Il sindaco, però, sarà metropolitano e lì il dato è certo: 182mila nuclei familiari, cioè mezzo milione di persone beneficiare dell’assegno di cittadinanza. Una provincia che presenta numeri che valgono quanto quelli dell’intero Nord Italia. Una città distratta, dolente, quindi, che non guarda più all’amministrazione comunale, ma semmai alle “mammelle” dello Stato come a una risorsa per vivere meglio.

Eppure sono le città i più grandi trasformatori del mondo, i luoghi per eccellenza della globalizzazione. Questo è l’insegnamento dell’urbanizzazione e della tendenza planetaria verso le megalopoli. Diritti, opportunità, servizi. Nelle città tutto questo c’è più facilmente e con il digitale diventa “smart”, tende alla facilità d’uso, all’accessibilità totale, quando possibile all’istantaneità. Ci sarebbe stato tanto di cui parlare, dalle grandi trasformazioni urbane alla digitalizzazione dei servizi e alla riforma della macchina comunale. Tanto di cui parlare per tratteggiare una Napoli futura, benchè oberata oggi di debiti. Perchè i debiti si affrontano con la crescita e recuperando l’evasione tributaria, non con ripianamenti a piè di lista.

Peccato, perché le premesse positive non mancavano. Dalla grande esperienza amministrativa e politica di un ex sindaco, presidente di Regione e ministro come Antonio Bassolino alla sensibilità “sociologica” verso i problemi dell’area metropolitana maturata da un  pm in prima linea come Catello Maresca, senza dimenticare gli indiscutibili titoli di merito dell’accademico Gaetano Manfredi per quanto riguarda la ricerca e l’innovazione in ambito universitario. Ha influito negativamente – questo è certo – il livello del ceto politico attorno ai candidati (salvo Bassolino, bisogna ammetterlo) che ha spinto per un abbassamento dell’asticella del tono della campagna elettorale. Un ceto politico specchio della società. A cui purtroppo si sono adeguati anche i novizi, i due grandi sfidanti, che avrebbero dovuto portare uno stile nuovo. Uno è stato un’autentica frana, l’altro ha deluso quanti già vedevano in lui un politico scafato. Che si vada o meno al ballottaggio, per Napoli c’è tanto lavoro da fare.