Ha iniziato ad ingoiare accendini, lamette, stuzzicadenti, poi una forchetta e, da ultimo, dei chiodi. Ha provato anche ad impiccarsi, ma noi familiari – affermano disperate zia e madre – lo abbiamo saputo dai giornali locali, non perché qualcuno ci ha avvertiti. Lui è un tossicodipendente ristretto nella casa circondariale di Arienzo, uno dei tanti delle carceri italiane che ne contano una percentuale superiore al 25%. Le due donne temono il peggio: «possiamo capire il primo gesto, il secondo, il terzo – dicono – ma ora siamo veramente sopraffatte dall’ansia». Le ho messe immediatamente in contatto con il sempre presente (assieme ai suoi collaboratori) Samuele Ciambriello, garante regionale in Campania delle persone private della libertà. Subito dopo mi scrive la zia: «Ho spiegato tutto, ma il problema è che ieri sera è successo di nuovo. Il giornale riporta che è stato operato d’urgenza per aver ingoiato le batterie del telecomando. Mia sorella ha telefonato in carcere per sapere se era ricoverato ma le hanno risposto che non danno spiegazioni per telefono e che avrebbe dovuto recarsi di persona in istituto, cosa che ha fatto ricevendo come risposta il silenzio».  Mi viene in mente quell’articolo dell’Ordinamento penitenziario che recita «particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie». È l’articolo 28, uno dei tanti spesso violati. Quello del ragazzo di Arienzo è un caso recentissimo, e l’ho portato ad esempio perché, avendo egli tentato il suicidio insieme a ripetuti gesti autolesionisti, è certamente un detenuto a forte rischio. Il problema è che sta in carcere, cioè nel luogo peggiore per essere aiutato e curato. Ma cosa fa l’Amministrazione Penitenziaria per prevenire i suicidi che, in questo 2019 (ancora non terminato) sono arrivati già a 45?  Partiamo da un presupposto: il carcere in generale, in quanto istituzione totale che tende ad annullare le individualità, le propensioni e le attitudini del singolo dando risposte uguali a problematiche diverse, è di per sé un’istigazione al suicidio.

LEGGI ANCHE – Mammagialla di Viterbo, il carcere dei suicidi e delle denunce di pestaggi

Me lo disse tanti anni fa lo psichiatra responsabile del carcere di Padova, mettendosi nei panni di uno che veniva sbattuto in cella. Hai voglia a firmare “protocolli” per la prevenzione del rischio dei suicidi in ambito carcerario come fa il Dipartimento da tempo immemorabile! Questi “protocolli” o “linee guida” divengono quanto di più inutilmente burocratico possa esistere se mancano le figure professionali che, all’interno del carcere, dovrebbero fare squadra e lavorare in équipe per individuare prima le persone a rischio e, successivamente, prenderle in carico. La drastica riduzione dell’organico degli educatori (passati da 1.376 a 999 di cui, in servizio, 808), degli assistenti sociali (solo 930 in servizio con il compito di seguire anche l’esecuzione penale esterna, cioè in tutto oltre centomila persone), degli psicologi (professionalità ormai divenuta rarissima in carcere), degli psichiatri delle Asl, rende impossibile qualsiasi azione che intenda essere minimamente efficace in istituti sempre più segreganti e sicuritari e sempre meno propensi a corrispondere al dettato costituzionale di un’esecuzione penale ispirata a principi di umanità e di reinserimento sociale della persona condannata. Se entrate in un carcere alle 16 del pomeriggio vi trovate certamente gli oltre 60.000 detenuti ristretti in 45.000 posti e, fra tutte le professionalità che dovrebbero animare il carcere, vi troverete unicamente alcuni (pochi) agenti, i quali spesso sono chiamati, da soli, a controllare e “governare” più sezioni distribuite in due o tre piani detentivi.

Se siete fortunati, ma solo nelle carceri più grandi, potete trovare anche medici e infermieri. Ecco, ora figuratevi un’emergenza in un luogo così fatto di celle, cancelli, sbarre e cemento. Io penso che se non si torna a riconcepire l’esecuzione penale riducendo drasticamente gli accessi al carcere (sempre più criminogeno e fuorilegge) e, contemporaneamente, non si aumenta l’accesso alle pene e misure alternative (come si era tentato con l’affossata Riforma dell’Ordinamento Penitenziario) sarà impossibile non ritrovarci di frequente a piangere i caduti, “morti per pena carceraria”. Ma una cosa è per noi del Partito Radicale chiarissima: i responsabili di queste violazioni dei diritti umani fondamentali devono essere individuati e denunciati in ogni sede, confidando molto nelle giurisdizioni superiori, come è stato per la memorabile sentenza Torreggiani che, se ha umiliato il nostro Paese ritenuto responsabile di sistematici trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti, ha almeno restituito loro un po’ di dignità e di sollievo umano e civile. D’altra parte è innegabile che le istituzioni che dimostrano di reggere sulle carte fondamentali sono la Corte Edu, la nostra Corte Costituzionale e, per certi versi, anche la Corte di Cassazione. Che le carceri siano divenute una polveriera vicina alla deflagrazione mi sembra che in pochi si abbia contezza. Eppure, tutti gli “indicatori”, a partire dai suicidi, stanno lì a rivelarcelo. Mi auguro che chi di dovere rinsavisca.

Rita Bernardini

Autore