Ragazzi cattivi. Due parole che, accoppiate, ci fanno rabbrividire a causa della mentalità collettiva tradizionale che ci ha cresciuti. La nostra tendenza – quella delle persone “brave” e “pulite” – è quella di scappare e cancellare questa immagine dalla nostra testa per non avere nessun rapporto con questo termine e con queste persone che non hanno nulla a che fare con noi. Ma pensiamoci seriamente. Esistono veramente ragazzi cattivi? Una provocazione che mi è letteralmente arrivata addosso qualche sera fa. Al posto di andare a bere il solito drink con gli amici al tavolo di un bar, mi ritrovo seduta per terra in una sala stracolma di gente nella Parrocchia di S. Anna a Busto Arsizio. Sono lì per un incontro intitolato “Non esistono ragazzi cattivi. Storie di cadute e risurrezione”. A organizzarlo è Don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio e fondatore della cooperativa sociale La valle di Ezechiele, che opera a servizio delle persone recluse e dei loro familiari. Intervengono Don Claudio Burgio, cappellano dell’Istituto Penale per Minorenni Cesare Beccaria di Milano, e sette ragazzi della comunità Kayros, una realtà fondata nel 2000 dal sacerdote per accogliere giovani con provvedimenti penali, amministrativi e civili in atto. Andy (19 anni), Morgan (19 anni) e Samuel (17 anni) davanti ad un pubblico si raccontano tramite le parole delle loro canzoni rap.

L’incontro inizia con la classica domanda. Perché compiere un reato da giovani? Sono sbagliati questi ragazzi? O, come molti direbbero, cattivi. La risposta si trova nel primo brano “Papà”, dove i tre ragazzi raccontano di una mancanza della figura del “pa” che si è trasformata in un “taf taf – tu mi dai, io ti do”. Vendere droga e rubare per il mantenimento della famiglia, compiere azioni per farsi valere nel quartiere e dimostrare agli altri di essere qualcuno, il figlio che il “pa” avrebbe dovuto veder diventare grande. Allora non sono ragazzi veramente cattivi?! È il momento del secondo brano, “Gommapiuma” di Samuel. Il ragazzo in queste parole tira fuori il suo carattere. Contro chi? Contro lo stato che si è posto in modo violento di fronte al suo atto violento. Uno stato che non ha saputo prenderlo per mano. Questi ragazzi si sentono etichettati nel profondo della loro persona. Non è una giustificazione al reato, ma sono anche queste ferite a determinare i percorsi. La risposta al marchio che questi ragazzi si sentono addosso, entra in gioco nel rap “Gang Paradise” (di nome e di fatto) di Morgan. Un paradiso fatto di cosa? “Di una valanga di soldi” che, con l’andare avanti della testimonianza, si svela essere in realtà un guadagnare per aiutare la madre. “Non volevo dimostrarmi dolce…Si il successo per te, ma per le persone che ami fai di più”, dice Morgan.

E il futuro? È una parola bella o complicata? Andy risponde: “Spero che il futuro sia meglio del passato perché se è così siamo tutti fregati qua. Ho paura, non voglio vivere di sopravvivenza. Purtroppo, io non so vivere, so solo sopravvivere”. Tuttavia, il futuro arriva se semini qualcosa oggi, quindi non è vero che sei finito adesso. L’incontro prosegue con la canzone “Giambellino” di Andy. Si arriva così al tema del fallimento, argomento che colpisce chiunque. Anche chi, come me, in cella non ci è finito. In una società che ti premia solo se sei bravo ed eccelli in qualcosa, non puoi fare altro che sentirti difettoso e “non giusto”. E qui entra in gioco il senso di inadeguatezza che riempie la nostra società. Quando si fallisce, cosa si fa? lo condivido le mie fragilità con le persone di cui mi fido. Ma, sinceramente, vi sembra facile far emergere una tua debolezza?! No, non lo è, ma riconosco che la fiducia in se stessi e negli altri è l’unica soluzione. Se ti fidi, non sei da solo. E, se non sei solo, è quasi impossibile sentirsi un fallito perché se inciampi c’è sempre qualcuno pronto a prenderti per la maglietta o, se cadi, a tirarti su e ripulirti dallo sporco e dalle ferite.

L’affetto è qualcosa che riempie la vita”, conclude così l’incontro Don Claudio Burgio. Questo è ciò in cui mi sono imbattuta in un casuale venerdì del mese di gennaio. Una riflessione non solo su “quei ragazzi cattivi”, ma piuttosto sul mondo in cui viviamo e del valore che noi stessi abbiamo come persone. La vita attorno al nostro piccolo cerchio della quotidianità, ha un valore. Esattamente un mese prima mi ritrovavo a riflettere su queste tematiche per un progetto scolastico incentrato “sull’io” in quanto uomo, e sulle sue domande profonde ed enigmatiche: in un mondo di valori, io, chi sono? Perché valgo? E ora, da questa provocazione che ha avuto un certo impatto sulla mia ricerca, non posso far altro che ammettere di pormi spesso questa domanda in tutte le sue forme disparate. Ma sono valida? Posso farcela? Nella vita mi è capitato di fallire mancandomi di rispetto; che ne sarà di me e della mia ferita? Ad oggi non sono in grado di rispondere in modo certo a queste domande. Tuttavia, sono sicura che da un progetto scolastico e da una semplice serata ho ricavato un insegnamento per la vita. “Bene – ti chiederai – cosa c’entra tutto questo con me? Non sono mica un delinquente in prigione!”. Qui sta l’errore. Non sarai mai finito dietro le sbarre, ma, come dice Don Claudio Burgio, “dalla cella puoi rinascere, nella cella non muori”. Quest’immagine non appartiene solo al mondo dell’IPM e della giustizia. Non è altro che uno schiaffo che ricorda a tutti noi, nessuno escluso, la cella che ogni giorno ti crei entrando nel loop dei castelli dell’inadeguatezza senza renderti conto delle doti che hai e dei valori che ti circondano. Questo è quanto ci insegnano quei ragazzi “cattivi” che vengono giudicati spacciati, ma che con le loro canzoni urlano al mondo il loro valore. Quindi che fai?! Alzati e riparti perché vali.

Letizia Vanzini

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