Solo due settimane fa, parlare di convivenza col virus sembrava un’eresia, un cedimento codardo a Confindustria. Ora più o meno tutti danno per scontato che conviverci sarà necessario: considerando il lento procedere della curva epidemica, il rischio non ancora scongiurato di recidive, la asimmetria con cui si procede nei vari Paesi del mondo, perfino la possibilità che in alcune zone il virus si cronicizzi e diventi endemico, considerando questi fattori è probabile che l’infezione non scenda a zero fino a che non si sarà trovato e messo a disposizione di tutti un vaccino efficace – si parla di quindici o diciotto mesi.

Se in tutto il mondo (e ancor più in Italia che già era a crescita zero) stessero fermi per un anno e mezzo industria, agricoltura e commercio, la recessione economica si trasformerebbe in fame e carestia, tradizionali strascichi delle pestilenze. Ci sarebbero molti più morti che per il Covid-19, ivi inclusi quelli da sommossa o da suicidio. Nei Paesi cosiddetti sviluppati non siamo più avvezzi a queste prospettive, non riusciamo nemmeno a immaginarle. In Africa sono talmente abituati a morire di polmonite che un virus in più o in meno non fa differenza: perfino sapere di che malattia si sta morendo è un privilegio dei Paesi ricchi.

Delle nostre Afriche interne (i barboni, gli emarginati, i carcerati, i profughi dei centri di raccolta) preferiamo non sapere; noi già ci lamentiamo della reclusione domestica, le famiglie italiane non somigliano a quelle da Mulino Bianco che ci propina la pubblicità televisiva: ci sono liti, violenze, strappi. Per ora gli italiani cantano dai balconi, ma tra un po’ non ne potranno più e tutta l’estate chiusi in casa, coi prodotti nei campi che marciscono, senza stipendio né guadagno perché le fabbriche e i negozi sono chiusi, e la burocrazia che concede i soldi col contagocce, e poi ancora un autunno, e un inverno, e un’altra primavera, beh il nostro sistema sociale e psicologico non potrebbe sopportarli. Andare in giro è la vera arma di distrazione di massa per uscire da noi stessi; tutta la nostra economia consumista si basa su una confusione tra beni necessari e superflui – se ce la tolgono, distinguendo, diventiamo matti.

Dunque, convivere con la pandemia. Riapertura graduale, forse per Regioni, per fasce d’età, per settori produttivi; con tutte le precauzioni del caso, ma sapendo che con la riapertura inevitabilmente qualche contagiato in più ci sarà, e qualcuno morirà. La domanda di fondo, che bisognerà pur porsi, è: quanti individui è lecito sacrificare per il bene di tutti? La prima risposta, colma di perbenistico orrore, è: nessuno. La vita non ha prezzo, una vita sola conta più di tutto il nostro Pil, non c’è niente per cui valga la pena di morire. Dal punto di vista affettivo, questo è ovvio: la morte di un genitore, o di un nonno amatissimo, o di una figlia infermiera, non c’è niente che la possa ripagare. Ma dal punto di vista sociale questa risposta è ipocrita. In quante circostanze la società è stata costretta a fare questo calcolo terribile, a valutare la sostenibilità di un certo numero di morti per non causare un male peggiore?

Se l’Ilva fosse stata chiusa dieci anni fa, molti tarantini non sarebbero morti di tumore. Se avessimo chiuso precauzionalmente tutte le autostrade dai cui viadotti si staccavano frammenti, ci saremmo risparmiati i quarantatré morti di Genova. Nessun ente locale decide di spendere centomila euro per transennare un canale periferico, lungo chilometri, perché un bambino che ci è caduto dentro e forse un altro potrebbe caderci tra qualche anno. Le vite umane, socialmente, hanno un prezzo; un ottantacinquenne con l’Alzheimer in una casa di riposo e un giovane ricercatore hanno, per la società, un valore diverso perché possono contribuire per un quoziente diverso all’economia del Paese. Dunque è normale che la società difenda al massimo la salute del primo, ma conceda al secondo più libertà di movimento e d’azione – ci aspettano mesi in cui le regole non saranno uguali per tutti.

Non si tratta di eugenetica né di darwinismo sociale, non sto facendo discorsi alla Mein Kampf sul fatto che in natura l’infezione che colpisce i membri vecchi e malati rafforza il branco. Non si combatte la natura con la natura. Né sto abbandonandomi alla retorica del sacrificio bellico, i Trecento alle Termopili o sermoni del genere. Sto solo dicendo che, se in una riapertura ragionevole del Paese sarà necessario che gli individui meno resistenti conoscano restrizioni più dure, questi individui dovranno sopportarle di buon animo e lasciare andare chi può. Nascondendo le lacrime e senza farli sentire in colpa. È giusto che loro lavorino, producano, stando allegri e sentendosi insieme; non possiamo trasformare il Paese in una trappola di rancori incrociati, tra chi accusa “la vostra spensieratezza ci infetta” e chi recrimina “già ci avete rubato il futuro, non avvelenateci pure il presente”.

Sarà già troppo dura anche così, senza che chi può accedere allo smart working stia a spiare se i raccoglitori di pomodori si tolgono la mascherina, e senza che gli anziani soli si lamentino se dall’appartamento accanto arrivano suoni di festa. Non possiamo diventare una massa di sospettosi e delatori, la natura si affronta con le risorse della cultura, passando dall’implicito (di ciò che si fa ma non si dice) all’esplicito. È eroe chi affronta un pericolo volontariamente quando potrebbe evitarlo: Padre Kolbe o Salvo D’Acquisto furono eroi, come lo sono i medici già pensionati, corsi in Lombardia per dare una mano. Noi, che stiamo in casa e che forse dovremo starci più a lungo degli altri, non siamo eroi ma possiamo dare un piccolo contributo di lucidità.

Possiamo ricordare che, nei mesi difficilissimi che ci aspettano, le doti principali saranno il buonsenso e la tolleranza; che forse, purché gli aiuti arrivino con tempestività, qualche modesta ruberia potrà accadere; che le frontiere e le porte riaperte provocheranno qualche deceduto in più rispetto a una chiusura isterica ed ermetica. Non facciamoci prendere dall’euforia della severità, non perdiamoci in decreti troppo minuziosi che, a forza di aggiustamenti in corso d’opera, diventano ridicoli e insensati come le “gride” di manzoniana memoria.