60 anni fa
Olimpiadi di Roma 1960, Wilma Rudolph e il segreto delle gambe

Gli occhi degli spettatori assiepati in ogni angolo dello Stadio Olimpico sono tutti puntati su di lei. In corsia centrale, in attesa di salire sui blocchi, si staglia come una dea la favorita della finale dei 100 metri. Il più spiritoso, e il più dotto in tribuna, azzarda una battuta: è la creatura che più si avvicina alla perfezione di Policleto, lo scultore dell’Antica Grecia che stilò il canone della bellezza sulla base del quale sono state scolpite le gigantesche statue di marmo che adornano il Foro Italico, tutt’intorno. Solo che i marmi sono di un bianco abbacinante, lei invece è nera, una Venere nera: un metro ottanta, capelli lisci e corti, un sorriso dolcissimo. Ma quello che colpisce di più sono le gambe: due gambe lunghe, affusolate, tornite. Bellissime.
La dea in questione si chiama Wilma Rudolph, è la campionessa del mondo in carica, viene dal cuore dell’America e gli anglosassoni, tutti soddisfatti, le hanno già appioppato un bel soprannome, di quelli virili: il Tornado del Tennessee. Al colpo di pistola dello starter, quelle gambe che paiono infinite cominciano a muoversi, a mulinare falcate inverosimili, a disegnare arcate perfette. Le avversarie ci provano anche a starle dietro, ma possono solo ammirare Wilma andare via e volare verso il traguardo. Il cronometro si ferma a 11 secondi netti.
Sarebbe il record mondiale, ma non viene omologato a causa del vento, del Ponentino. Il Ponentino, quel pomeriggio del 2 settembre, è stato spazzato via dal Tornado del Tennessee. E però, dinnanzi a quel soprannome gli italici cuori storcono la bocca. Non rende l’idea, non rende giustizia a quel misto di grazia, leggerezza, agilità, a quello spettacolo di armonia ancestrale a cui hanno avuto il privilegio di assistere.
Macché Tornado, d’ora in avanti Wilma Rudolph sarà la Gazzella Nera. Punto e basta. «Mi piace. La gazzella è un animale orgoglioso che cammina a testa alta» risponde lei a chi le chiede se è soddisfatta di quel nomignolo.
Tre giorni più tardi, la Gazzella Nera è di nuovo ai blocchi di partenza sulla pista rossa dello Stadio Olimpico. Stavolta la distanza è raddoppiata: si corre la finale dei 200 metri. Tutti attendono di rivedere il miracolo sprigionarsi da quelle gambe. Ma nessuno può immaginare che quelle gambe, un miracolo, lo sono davvero. Wilma nasce nel 1940 a Clarksville, una cittadina nel cuore del Tennessee. Il padre è un facchino delle ferrovie, mentre Blanche, la madre, lavora come cameriera in una famiglia di bianchi. Wilma nasce di parto prematuro, ma non è quello il problema. Il problema arriva verso i 4 anni, quando le diagnosticano una grave forma di poliomielite che le blocca gli arti inferiori. Alle gambe della piccola Wilma vengono applicati due rigidi supporti di ferro. «Il medico disse a mia madre che non avrei più camminato – racconta Wilma nella sua autobiografia – ma mia madre non ci volle credere e mi disse che sarei guarita. Finii per credere a mia madre».
Ma tra il dire e il fare… Siamo nell’America profonda, in piena segregazione razziale. Gli ospedali di zona curano solo i bianchi, non i neri. Certo, ci sarebbe il Meharry Hospital. Lì sì hanno un’equipe di medici neri che potrebbe aiutare Wilma. C’è un piccolo particolare, però: il Meherry Hospital è a 50 chilometri da Clarksville, lontano laggiù, poco fuori Nashville. Blanche, la madre di Wilma, non si perde d’animo. Per due volte a settimana accompagna la figlia avanti e indietro dall’ospedale, sul fondo di un autobus Greyhound, nei posti riservati ai neri. E se l’autobus, un giorno non passa, Blanche prende la bicicletta, si carica Wilma sulla canna, e se li fa pedalando quei 100 chilometri, andata e ritorno. La piccola Wilma, per alleviare le fatiche della madre, le canta canzoni blues che sa che le piacciono tanto. Per isolarsi e restare concentrati nei minuti che precedono la gara, oggi, gli atleti ascoltano musica dentro cuffie gigantesche. A me piace pensare che quel pomeriggio del 5 settembre, prima della finale dei 200 metri, Wilma sussurri tra sé e sé una di quelle canzoni blues che cantava alla madre sulla canna della bici.
Perché quando parte la gara, Wilma, concentrata lo è eccome. Non parte fortissimo, in verità. Alla curva è ancora insieme alle altre. Ma quando arriva il rettilineo non ce n’è per nessuna. Ed ecco, di nuovo, ripetersi il miracolo di quelle gambe che si distendono e la fanno letteralmente levitare verso la seconda medaglia d’oro. Proprio quelle gambe che erano rimaste bloccate per cinque lunghi anni dentro rigidi supporti. Cinque anni. Tanto è durato l’andirivieni dal Meherry Hospital. Cinque anni sono durati i massaggi a cui Wilma ha dovuto sottoporsi, quattro volte al giorno. A farglieli non è mamma Blanche, però. Lei deve andare a servizio nella casa dei bianchi. Sono i fratelli di Wilma a sobbarcarsi il lavoro. Un po’ per uno, alla fine, non è un sacrificio enorme, visto che in tutto, tra maschi e femmine, sono 22. La staffetta di massaggi fra fratelli, insieme alle cure del Meherry, alla fine produce i suoi frutti. A 9 anni Wilma può finalmente levare i supporti che le stringono le gambe. Non può correre ancora, però. Nei due anni che seguono, dovrà portare un paio di ingombranti scarpe ortopediche con rialzo.
Del lavoro di squadra dei suoi fratelli e sorelle, di quella staffetta di mani che hanno massaggiato a turno le sue gambe malate, deve essersi ricordata Wilma, alla vigilia della sua terza gara olimpica: una staffetta per l’appunto, la 4×100. Quando il testimone arriva fra le sue mani, all’ultima frazione, le americane sono indietro. Ma, se le sue compagne, esattamente come i suoi fratelli anni prima, si sono date il cambio per portare il testimone fino a quel punto, fin dove potevano arrivare, ora sta a lei dare un senso a tutto quel lavoro. Il cambio non è perfetto, anzi. Wilma prende il testimone dalla compagna che la precede, Barbara Jones, almeno un metro prima. Questo significa meno slancio, meno rincorsa, meno velocità. Un po’ come quando da bambina gli altri bambini correvano e lei rimaneva ferma…
Ma ora le sue gambe sono libere, libere di andare veloci, sempre più veloci. E allora Wilma corre, corre, corre. Dopo pochi metri ha già raggiunto la tedesca, Jutta Heine. In due falcate la sorpassa, e poi fila come una freccia verso il traguardo. Per la terza volta la Gazzella Nera taglia in solitaria il filo di lana. Non si era mai visto nulla di simile. Al suo ritorno negli Stati Uniti, Wilma Rudolph viene ricevuta con tutti gli onori alla Casa Bianca. Ma lei, all’appuntamento con il presidente Kennedy e il suo vice Lyndon Johnson, non si presenta mica sola. Al suo fianco, vestita di tutto punto in tailleur e cappellino, c’è sua madre Blanche, la donna che un giorno lontano contro tutto e tutti le aveva predetto che sarebbe guarita. E che l’aveva scarrozzata avanti e indietro dall’ospedale per cinque anni e tanti, tantissimi chilometri. E che, prima ancora che nella medicina, aveva creduto nella propria forza di volontà, in quella di sua figlia e di tutti gli altri fratelli che aveva cresciuto. Le tre medaglie d’oro, in fondo, erano anche un po’ sue. Anzi, parecchio sue.
In sei giorni di un’indimenticabile estate romana, Wilma Rudolph ha conquistato tre medaglie d’oro alle Olimpiadi. Nessuna donna prima di lei era riuscita in una simile impresa. Forse perché nessuna come lei aveva sognato per così tanto tempo di correre, correre e basta, per la sola gioia di essere in grado di farlo. Ed è quella gioia che Wilma vuole continuare a trasmettere. Le gare, le medaglie, le vittorie contano, ma quella gioia vale di più. Così Wilma si ritira dall’agonismo prestissimo, a soli 23 anni. Ha una figlia e, in tasca, un diploma per insegnare ginnastica alle bambine delle scuole elementari. Sarà quello che farà per il resto della vita.
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