Non c’è prove contrarie che tengano, quando si vuol credere!
Parlami di Garlasco senza parlarmi di Garlasco: lo show dell’accusa e i ruoli dei poveri Stasi e Sempio

“Parlami di Garlasco senza parlarmi di Garlasco”, direbbe uno pratico dei social media. E a ben vedere, farlo è imperativo, se ci si vuole confrontare con qualche speranza di lucidità con quella che campeggia ormai ovunque, da alcune settimane, come la notizia del giorno (e pure del giorno dopo). È la regola aurea, in altri termini, salvo a rischiare di levare una voce destinata a diventare indistinguibile in un coro divenuto oramai troppo assordante. Proviamoci.
La prima cosa che questa storia racconta è che un punto, nel mondo della Giustizia, è sempre tendenzialmente una virgola e che, dunque, parlare smodatamente di processi (specie in corsa), non solo è sterile, ma spinge le parole sul terreno friabilissimo della congettura: parole buone, insomma, ad acchiappare commenti, like e nulla più. Non si vuol dire che il processo penale non arrivi a una conclusione normalmente stabile, ovviamente; ma non si può trascurare che appartiene alla natura stessa del sistema – e dunque all’armamentario che esso appresta per l’accertamento di fatti e responsabilità – l’idea che tra l’approdo della vicenda processuale e ciò che è davvero accaduto non sia prevista la riconciliazione assoluta. I fatti che il processo esamina ci sono stati, ma non ci sono più, tanto che si prova a “ri-costruirli” con un’operazione, appunto, che non garantisce il risultato. Non dovrebbe allora stupire che, persino dopo decenni, quello che era apparso vero possa rivelarsi un inganno o, comunque, che valga la pena ritornarci sopra.
E questo racconta la seconda cosa, attraverso una domanda: perché allora tanto clamore se il verdetto di un vecchio caso torna in gioco? Mi pare per almeno due ragioni. La prima è l’immanente desiderio, che alberga nell’animo della collettività, di affidare la tranquillità della convivenza civile ad un sistema infallibile che individui con certezza le colpe e rimargini con decisione le ferite del delitto. La seconda ha a che fare invece con il modo in cui la storia di un processo è stata raccontata, specie a coloro che, con le cose del processo, non hanno un confronto quotidiano. E qui il tema si complica, perché non più del processo o della giustizia si sta parlando, ma della informazione d’intorno, vale a dire di come, ma anche di quando, quella storia viene propinata (che è poi l’idea fondante di PQM).
Come
Rullo di tamburi, titoli fantasiosi, esasperazione di particolari inutili e talvolta al limite dell’autentico, amplificazione senza filtro di voci incontrollate, persino di esperti (che però con le carte del processo non sono nemmeno stati nella stessa stanza), relazioni dietrologiche tra fatti tra loro scollati. Sono alcuni degli ingredienti con cui si ha a che fare quotidianamente e che sovrastano qualsiasi (pur esistente) tentativo di narrazione sobria, destinata a capitolare per essere più complessa e assai meno accattivante.
Quando
La narrazione del processo è una sconosciuta, dimenticata da tempo, rannicchiata in un angolo ad opera della sorella maggiore che la ha definitivamente prevaricata: l’informazione investigativa, quella che non racconta il processo, ma l’indagine. E siccome l’indagine è sostanzialmente appannaggio dell’investigatore, la storia che passa è quella di chi accusa e mai – o quasi mai – di chi difende. Una miscela esplosiva che dà conto forse dell’interrogativo che ci siamo posti: perché tanto clamore se un caso torna in auge. Perché se il desiderio di tranquillità collettiva alimenta l’idea assai naïve (ingenua, ndr) che il processo sia matematica e che, dunque, il condannato – servito peraltro anni or sono su un piatto d’argento attraverso una narrazione non propriamente equilibrata – è certamente colpevole, non è strano che il cuore si ribelli rumorosamente al solo pensiero che la storia vera fosse un’altra; al solo pensiero che un innocente sia stato in galera per anni. Insomma, per dirla con Sciascia, “non c’è prove contrarie che tengano, quando si vuol credere!”. Ecco, per parlare di Garlasco senza parlarne, basta riflettere sul fatto che tutto questo si riferisce al povero Stasi. Ma pure al povero Sempio.
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