Giustizia
Pasticcio Bonafede, la riforma è inapplicabile
Continua acceso il confronto politico sulla riforma della prescrizione. Ci sono alcuni punti fermi, il primo dei quali è costituito dal fatto che la legge n. 3 del 2019, in questa parte, è già operativa per i reati commessi dopo il 1° gennaio 2020. In altri termini, per le sentenze emesse dopo questa data per questi reati opera la legge spazzacorrotti, con la conseguente interruzione del decorso della prescrizione dopo la sentenza di condanna o di proscioglimento. Il dato opera per i processi definiti con rito direttissimo, con convalida e contestuale giudizio e a breve opererà per i direttissimi (ordinari) e tra novanta giorni per i giudizi immediati a prova evidente. Il tutto oltre al fatto strutturale, più volte evidenziato, dalla frattura che si determinerà tra la fase antecedente alla decisione di prima istanza e quella successiva.
Il confronto politico si è spostato sulla legittimità della possibilità di trovare dei compromessi sul testo della riforma, differenziando le posizioni del condannato da quelle del prosciolto. In altri termini, la “politica” di maggioranza sembra aver già archiviato la possibilità di un superamento della nuova disciplina, tesa solo a trovare soluzioni di mediazione. Il punto conflittuale riguarda l’affermazione per la quale la differenziazione delle due posizioni processuali sarebbe in contrasto con la Costituzione, sotto il profilo della violazione dell’art. 3 Cost., il principio di uguaglianza. Si tratta di argomento specioso, anche in considerazione che queste riflessioni non avevano accompagnato la riforma Orlando. Invero, le ipotesi sono due. Se le due posizioni soggettive sono uguali, la eventuale declaratoria di incostituzionalità, non farebbe regredire il prosciolto al livello del condannato, trattandosi di incostituzionalità in malam partem, ma piuttosto eleverebbe la posizione del condannato alla riformata disciplina del prosciolto. Se, invece, le posizioni potessero essere considerate diverse, si potrebbero legittimamente differenziare.
Il focus del confronto si è spostato, quindi, sul cosiddetto lodo Conte, ora contenuto nella bozza di legge delega per la riforma del processo penale. In questi termini, c’è il rischio di consegnare la riforma Bonafede alle travagliate vicende, contenutistiche e temporali, del più ampio contesto riformatore del processo. Il tema della prescrizione, cioè, delle modifiche alla legge vigente, va tolto dalla delega – fissata a un anno – e va trattato separatamente a tempi brevi, imponendo alle forze politiche di assumersi le responsabilità di scelte precise. Tuttavia, guardando al lodo Conte, non possono non essere segnalate da subito distorsioni, errori grossolani, scelte giuridicamente irricevibili. Limitandosi a segnalare le più evidenti, va in primo luogo evidenziato come si ritenga che l’opposizione ammissibile al decreto di condanna, non faccia venir meno la sospensione della prescrizione: con l’opposizione – come è previsto dal codice – il decreto di condanna è revocato. Non è possibile, quindi, che un provvedimento che è venuto giuridicamente meno mantenga i suoi effetti.
Il dato non è solo grave in sé, ma nasconde insidie, nel retro pensiero degli estensori del lodo, nella misura in cui potrebbe giustificare il mantenimento della sospensione della prescrizione anche in caso di annullamento della sentenza di primo grado (quella che sospende la prescrizione) con regressione del procedimento nelle fasi precedenti. Inoltre, non può non segnalarsi che i riferiti termini di due anni entro i quali dovrebbe chiudersi il giudizio di appello, innestando la richiesta dell’imputato di definizione del giudizio entro sei mesi salvo il prolungamento in caso di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, decorre non dalla decisione ma dall’arrivo degli atti al giudice di secondo grado.
Non può, infine, non allarmare il fatto che è previsto che il Consiglio Superiore della Magistratura, in relazione ai carichi giudiziari possa determinare per i diversi distretti delle Corti di appello termini differenziati per la definizione dei procedimenti pendenti, differenziando le posizioni degli imputati assolti, per i quali opera il meccanismo acceleratorio. Forse gli unici che avranno processi certi, alla fine, saranno solo i condannati con misure cautelari in scadenza. Tutti gli altri resteranno sospesi. Purtroppo sollevare oggi una questione di legittimità costituzionale – sotto il profilo della durata irragionevole del processo – della riforma Bonafede (nelle situazioni operanti) sarebbe possibile solo nel giudizio di appello, che tuttavia si scontrerebbe con il profilo della rilevanza. Forse la materia andrebbe resettata; ma il tema non è nella volontà di una politica che si è incartata.
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