Da sette anni Mahsa (nome di fantasia) vive a Parma. Arrivò in Italia con un visto per motivi di studio: la scusa era quella di seguire un master post laurea – quella in Architettura, conseguita a Teheran – ma la vera ragione era di salvarsi la vita. Mahsa oggi ha 37 anni: ha sposato qui un connazionale con cui era già fidanzata nella capitale iraniana, la città dove la sua famiglia continua a vivere.

Come lei, anche suo marito non riusciva più a sopportare la “fatica di vivere due vite in una: la prima a casa, l’unico posto dove ormai, in Iran, è possibile essere se stessi, e l’altra fuori, per le strade e sul luogo di lavoro, dove per non rischiare il carcere e la morte, si è costretti a fingere costantemente”. Soprattutto le donne, il “primo bersaglio” contro cui si accanisce il regime teocratico “per reprimere e restare al potere”, spiega a Il Riformista Mahsa. Nel 1979, con la rivoluzione iraniana, l’hijab – il velo che in Iran copre la testa già alle bambine che hanno compiuto nove anni – fu reso obbligatorio dagli ayatollah: “È molto difficile da spiegare, qui” – prosegue – “dove le donne sono libere di indossare qualsiasi indumento, ma l’hijab è usato dal regime come un vero e proprio strumento per restare al potere e fino a quando esisterà la Repubblica islamica, non lo toglieranno mai perché al centro di tutta la loro ideologia”. Che, spiega Mahsa, ha “una base politica dittatoriale”. “Ho visto i miei vicini di casa essere arrestati con la motivazione che credevano in una ideologia contraria al regime e poi essere condannati a morte: c’erano anche ragazzini di 13 anni che non sono mai più tornati a casa”, ricorda la donna che parla di “famiglie divise, migliaia di dissidenti che negli anni sono dovuti fuggire in Canada e in Europa per non essere uccisi”.

Ma tutta questa violenza è inflitta fin dai primi anni di vita soprattutto contro le bambine: “Ci dicevano, ‘non ridere’, ‘non urlare’, ‘non parlare con altri uomini’, ‘non cantare’, ‘non fare sport’: ci hanno tolto la voce, la possibilità di esprimerci liberamente, di muoverci, ci hanno ridotto in isolamento perché fondamentalmente hanno paura di noi, della nostra forza”. Una società patriarcale che ha come pilastri ideologici “morte all’America”, “morte a Israele” e “l’obbligo dell’hijab” e che si fonda su un patto siglato tra gli uomini: “Molti mariti, fratelli, padri sono purtroppo conniventi”, aggiunge Mahsa, “lo sono per paura, per vigliaccheria, per debolezza, perché non riescono a opporsi pagando il prezzo della vita”. Come Mahsa Amini, per una ciocca di capelli sfuggita al velo, o come Hadis Najafi che animava le proteste dei giovani dopo che, lo scorso 5 luglio del 2022, il governo iraniano emise una direttiva con cui imponeva nuove restrizioni all’abbigliamento femminile.

Tutto questo, Mahsa l’ha vissuto sulla propria pelle: “Una volta, andavo all’Università – erano i primi mesi della polizia morale – circa 18 anni fa” e fu fermata mentre era in macchina, portata alla stazione di polizia dove le tolsero i documenti e la trattennero per 12 ore: “Subii un interrogatorio violento e umiliante. Mi chiesero se fossi vergine, mi domandarono il perché indossassi pantaloni così alla moda. Alla fine, mi dissero che avrebbero aperto dossier sul mio conto in modo da non poter mai lavorare negli uffici pubblici e minacciarono di arrestarmi la prossima volta che mi avessero incontrata con un abito non in regola”.

Un’altra volta, la polizia la fermò perché si era sfiorata le sopracciglia: i pretesti che muovono la polizia morale contro le donne iraniane possono essere i più bizzarri e contraddittori, ma la ragione reale è quella di confinarle in uno spazio ristretto, “disarmarle” fino ad annullare la loro identità, infliggere loro un’apartheid sanguinaria e oppressiva. “Ero arrivata ad aver paura di uscire di casa: ormai, gli ultimi anni della vita in Iran, non andavo più neanche in ufficio, così decisi di venire in Italia, dove guadagno circa tre volte meno rispetto a prima perché avevo commissioni da Dubai: ancora oggi, mi capita di provare paura quando vedo la polizia italiana”.

Eppure Mahsa è ottimista: “Questa volta le proteste sono diverse dalle precedenti, muovono dal basso, sono senza leader e per questo più difficili da domare”. Gli analisti parlano di “una rivolta basata sui diritti personali più simile alle proteste generazionali del 1968 e darebbero ragione a Mahsa che però avverte: “La comunità internazionale è dalla nostra parte, ma il mondo deve sapere che il regime finanzia tutti i terroristi – da Hamas al governo sirianoe per fermare questi criminali, non basteranno le dimostrazioni di solidarietà, serve che le ambasciate ritirino i propri rappresentanti, serve che le ambasciate iraniane di tutto il mondo siano costrette a chiudere”. Solo così, i cambiamenti sociali in corso saranno davvero profondi e duraturi.

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Ho scritto “Opus Gay", un saggio inchiesta su omofobia e morale sessuale cattolica, ho fondato GnamGlam, progetto sull'agroalimentare. Sono tutrice volontaria di minori stranieri non accompagnati e mi interesso da sempre di diritti, immigrazione, ambiente e territorio. Lavoro in Fondazione Luigi Einaudi