Il caso dell'avvocato da due anni agli arresti
Pittelli deve marcire ai domiciliari, ormai è un sequestro di persona
Non lo mollano, è socialmente pericoloso e va bastonato. Magari solo perché Giancarlo Pittelli è un bravo avvocato e si è un po’ messo contro un procuratore permaloso che dietro l’aspetto bonario maschera anche qualche rancore. O magari perché è l’unico politico rimasto nelle maglie dei tanti flop delle inchieste di Calabria. Fatto sta che ormai a quasi due anni da quella notte del 19 dicembre del 2019 in cui Nicola Gratteri condusse un rastrellamento con la richiesta di manette per 334 calabresi, ancora il tribunale del riesame di Catanzaro rifiuta di rendere libero l’avvocato Giancarlo Pittelli. Pare un sequestro di persona.
Lo tengono ai domiciliari non perché abbia ucciso o rapinato o stuprato. E neanche perché sia sospettato di qualcuno di quei reati da “spazzacorrotti” che piacciono tanto ai tanti giacobini che siedono in Parlamento. No, lui deve stare in ceppi, anche se domiciliari (ma i primi dieci mesi li ha passati in isolamento, galera tosta, a Nuoro, proprio un luogo comodo da raggiungere per familiari e difensori) perché sospettato di aver letto e raccontato ai propri assistiti il contenuto del verbale secretato di un “pentito”. Cioè, stiamo parlando di quelle scartoffie che qualunque cronista giudiziario legge e conosce ogni giorno del suo lavoro in tribunale. Perché le carte, e le intercettazioni e le testimonianze, hanno la bella abitudine di “sfuggire” dalla proverbiale riservatezza dei pm e marciare verso le edicole, le tv e i social. Però se le vede un avvocato, vuol dire che è un mafioso.
Ma del fatto che Giancarlo Pittelli abbia avuto in mano quelle carte, le abbia lette e poi promesse e infine raccontate al suo assistito, il boss della ‘ndrangheta Luigi Mancuso, non solo non c’è alcun indizio, ma anzi c’è la prova del contrario. Ci sono le captazioni del trojan inserito nel suo cellulare, per esempio. In uno lui dice al suo interlocutore: «Io non posso dare consigli al mio cliente Mancuso perché non so che cosa potrà dire su di lui il collaboratore». E in un’altra, in cui si parla ancora della deposizione del pentito Andrea Mantella, il legale afferma: «Non ho i verbali». Ci credereste? Una manina, nei provvedimenti degli inquirenti, aggiunge “ancora”. Come a dire: non mi sono ancora stati consegnati, ma li aspetto. Peccato però che una perizia, fatta disporre dagli avvocati Salvatore Stajano e Guido Contestabile, dimostri che nella trascrizione quell’ “ancora” non c’è. Quindi rimane in fatto che l’avvocato non aveva la deposizione del “pentito”.
Del resto, negli anni trascorsi dal 1981 (data in cui Pittelli ha iniziato ad avere come cliente il boss Mancuso) fino al momento del suo arresto, tra lui e l’assistito ci sono state almeno un migliaio di conversazioni telefoniche, la gran parte delle quali è agli atti del processo. Sono tutte coperte dal segreto previsto dal codice per quel che riguarda i colloqui tecnici tra difensore e assistito, ma gli inquirenti ne hanno avuto accesso. Hanno mai trovato la prova del reato contestato all’avvocato Pittelli? Assolutamente no, perché la prova non c’è.
Pure Giancarlo Pittelli continua a essere bastonato. A ogni ricorso – al riesame, in Cassazione – un’aggiustatina al reato e agli indizi che dovrebbero sorreggerlo, ma quell’aggravante mafiosa resta, anche se solo sulla questione del verbale “violato”. Quasi che in terra di Calabria la professione di avvocato non fosse legittima, o che si dovessero difendere solo gli innocenti. Ma in quella regione c’è questo procuratore intoccabile, che si esibì in quella conferenza stampa del 20 dicembre di due anni fa, dopo quel blitz chiamato “Rinascita Scott” che gli verrà distrutto in gran parte dai giudici di vari livelli, tanto che sarà costretto a inventarsene subito un altro dal nome bizzarro “Imponimento”. Quel procuratore aveva subito detto che «Pittelli era l’anello di congiunzione tra il mondo di sopra e il mondo di sotto, il raccordo tra la mafia e la società civile, tra la mafia e la massoneria». Gli aveva fatto eco il Gip, parlando di «Giano bifronte, Parca della nuova era».
E poi giù con mazzate che rasentavano il ridicolo. Come quando si contestava all’avvocato, che difende il suo assistito dal 1981, una certa familiarità, tanto che i due si davano del “voi”, come se al sud d’Italia questo non fosse una cosa normale. Oppure il fatto che la moglie di Mancuso, parlando al telefono con l’avvocato, gli chiedesse notizie sulla sua famiglia. Cose così. Come l’elenco degli “indizi” messi insieme da procura e gip nell’ordinanza di custodia cautelare, sempre per dimostrare che il rapporto di “familiarità” tra legale e assistito dimostrava l’appartenenza del primo alla cosca. Si accusa Pittelli di aver raccomandato la figlia di Mancuso per un esame all’università, cosa non vera. Poi di aver chiesto aiuto ai medici di Catanzaro per un bambino affetto da leucemia, e anche di aver segnalato a Mancuso il nome di un cardiologo, piuttosto che l’indirizzo di un’enoteca dove vendevano una certa marca di champagne. Tutto questo condimento, mescolato al punto vero dell’accusa, la questione dei verbali del “pentito”.
C’è da domandarsi che cosa stia dietro a tanto accanimento, da non concedere la libertà dopo due anni. C’è il timore che Pittelli espatrii o che ripeta il reato, essendo tra l’altro sospeso dall’Ordine degli avvocati? E quali prove potrebbe ormai inquinare? È pur sempre un cittadino in attesa di giudizio. magari invece la realtà è più semplice. E da più parti continua a esserci un certo timore reverenziale nei confronti del Grande Accusatore, il procuratore Nicola Gratteri. Intanto occorre ricordare che né lui né il gip probabilmente in futuro potranno fare quella dichiarazione nei confronti di nessun indagato o imputato, come hanno fatto con Pittelli, dopo che l’Italia ha aderito alla dichiarazione europea sulla presunzione di innocenza. E poi c’è un’altra storia da raccontare, anche se si basa sulla testimonianza di una persona che non c’è più, il direttore del quotidiano online “Corriere di Calabria” Paolo Pollichieni. Il giornalista, che aveva un buon rapporto con il procuratore, avrebbe riferito a Pittelli che il dottor Gratteri aveva una sorta di rancore nei suoi confronti, tanto che lo definiva «massone e amico dei Mancuso».
Prima di morire (il 7 maggio del 2019), Pollichieni avrebbe detto a Pittelli che Gratteri lo avrebbe arrestato perché era responsabile di «aver scritto o detto qualcosa sullo stesso pm». Giancarlo Pittelli si è arrovellato a lungo su queste dichiarazioni, tanto da aver steso un promemoria difensivo, che gli è stato poi sequestrato nel suo studio dopo l’arresto. Si era poi ricordato di una sua eccezione di inutilizzabilità presentata al gup di Reggio Calabria in cui accusava il fatto che c’erano stati dei falsi nell’acquisizione di chat con sistema criptato. Possibile che Gratteri si sia offeso perché accusato di falsificazione? Possibile sì, se è vero quel che si dice sul suo carattere apparentemente cordiale ma in realtà ombroso e suscettibile.
Storie di Calabria, che si intrecciano a vicende giudiziarie. Come quell’intercettazione del 2018 in cui l’avvocato Pittelli parla con un collega del suo studio e riferisce un’altra “dritta”, che viene da un collaboratore di fiducia del procuratore capo di Catanzaro, il maresciallo D’Alessandro. Anche lui gli avrebbe riferito che Nicola Gratteri aveva del “risentimento” nei suoi confronti. Storie di Calabria, appunto. Come i tanti fallimenti, le tante inchieste demolite dai giudici dopo che erano state presentate alla stampa, ogni volta, come la definitiva spallata alla ‘ndrangheta. Di politici come Pittelli, che è stato anche deputato per tre legislature, nelle mani il procuratore Gratteri non ne ha quasi più. E Pittelli è sempre un boccone prelibato. Poi ci sono le suscettibilità e i rancori, un po’ come pizzi e vecchi merletti…
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