Sequestrato, murato vivo, prigioniero politico. Scegliete voi l’espressione più adeguata a descrivere la situazione dell’avvocato Giancarlo Pittelli, sbattuto per la terza volta in galera con motivazioni di volta in volta più paradossali. Prigioniero di uno Stato democratico in cui in tanti, giustamente, protestiamo perché il regime di Al Sisi ha trattenuto per due anni in carcere un cittadino egiziano per la semplice manifestazione del pensiero. E siamo felici della scarcerazione di Patrick Zaki, tanto quanto siamo, e dovremmo essere tutti quanti, scandalizzati e pieni di orrore perché invece un cittadino italiano, un onesto e bravo avvocato, viene tenuto in ceppi, sequestrato dallo Stato italiano democratico, da due anni per l’ineffabile “concorso esterno”. Che è meno di un reato d’opinione, perché non comporta concreti atti e neanche concrete parole.

Giancarlo Pittelli è stato arrestato per la terza volta per aver scritto una lettera, mentre era in detenzione domiciliare, alla ministra e parlamentare Mara Carfagna. Ha lanciato il suo urlo disperato a un’ex collega, visto che lui stesso è stato deputato e senatore, chiedendo aiuto. È un reato? Assolutamente no. Il diritto alla comunicazione e alla corrispondenza è costituzionale e inviolabile, tanto che non ne sono privati neanche i detenuti al regime di 41bis. Pure, quando la segreteria della ministra (non se ne capisce comunque la ragione) ha trasmesso la missiva all’Ispettorato di pubblica sicurezza di Palazzo Chigi, che a sua volta l’ha inoltrata alla squadra mobile di Catanzaro e quindi al procuratore Gratteri, il reato è all’improvviso saltato fuori. Articolo 276 del codice di procedura penale, quello sulla “trasgressione alle prescrizioni imposte”.  Ma Pittelli non si è mai allontanato dal luogo della detenzione domiciliare e neanche ha comunicato, per esempio con l’uso del telefono, con persone estranee a quelle conviventi. Ha urlato la propria disperazione a una persona che evidentemente riteneva amica con parole forti ma legittime da parte di chiunque. E forse un po’ di più quando ti vedi il mondo crollare addosso e non sai neanche perché. «Sono detenuto in ragione di accuse folli formulate dalla procura di Gratteri ed asseverate dalla giurisdizione asservita», ha scritto a colei che credeva amica. È un giudizio forte, e allora? Vogliamo contestargli anche qualche reato d’opinione?

Quando il legale dice “giurisdizione asservita” si riferisce alla magistratura giudicante che nel suo caso non si è mai, prima della cassazione, discostata dalle richieste del procuratore Gratteri. Il quale aveva da subito dato un giudizio politico (e illegittimo, secondo le norme sulla presunzione di innocenza) sul boccone grosso del suo blitz, definendo il legale «l’anello di congiunzione tra il mondo di sopra e il mondo di sotto, il raccordo tra la mafia e la società civile, tra la mafia e la massoneria». In ogni caso, asserviti o non asserviti che siano gli organi giudicanti al Gratteri pensiero, fatto sta che il tribunale di Vibo Valentia, competente a decidere sulla richiesta della procura, ha stabilito che…indovinate un po’? Che Giancarlo Pittelli tornasse in carcere. Per reato epistolare, evidentemente. Non solo per aver trasgredito alle regole del silenzio imposte, neanche dovesse abitare in un convento di clausura, ma anche per la sua intenzione -così è scritto nel provvedimento- di reiterare il reato. Perché, nel tentativo disperato di sentire una voce che riteneva amica, in fondo alla lettera che inizia con “Cara Mara” (confidenza ritenuta un’aggravante), l’incauto, con comportamento da vero innocente, ha fornito il numero di telefono della moglie.

Sperando magari in una chiamata da ascoltare con il vivavoce. «Aiutami in qualunque modo –conclude- Io vivo da due anni in stato di detenzione, finito professionalmente, umanamente e finanziariamente». Invece dell’aiuto sono arrivate le manette. E un giudizio sferzante da parte delle tre giudici del collegio che sta celebrando nella maxi aula di Lamezia il processo “Rinascita Scott”. Le quali (ci è consentito rimpiangere la presidente Tiziana Macrì, costretta all’astensione per un debolissimo precedente di giudizio su richiesta del procuratore Gratteri?) rilevano anche il fatto che «Pittelli manifesta la volontà di instaurare contatti con la precipua finalità di incidere sul regolare svolgimento del processo». Dire che c’è malizia politica in questa frase è usare un eufemismo. E anche stupore. Ci siamo tuffati all’improvviso in un tribunale egiziano? O non è diritto di ogni imputato battersi per la dimostrazione della propria innocenza? E, soprattutto da parte di un esponente politico, coinvolgere amici che lo sostengano presso l’opinione pubblica per raggiungere il risultato dell’assoluzione? Che cosa si intende per “regolare processo”, forse quello in cui i giudici danno sempre ragione alla stessa parte, quella dell’accusa?

Il 19 dicembre scadono due anni da quando l’avvocato Pittelli è stato trascinato in manette di notte insieme ad altre 300 persone nell’operazione “Rinascita Scott”, quella di cui si è vantato il procuratore Gratteri il giorno dopo in una di quelle conferenze stampa che, se verrà osservata la decisione del Parlamento in ottemperanza di decisioni europee, nessun procuratore potrà più mettere in scena. A meno che non stia scoppiando una guerra nucleare o non stiano arrivando gli alieni. Mentre l’avvocato giaceva nel carcere nuorese di Bad‘e Carros, quello in cui negli anni settanta e ottanta venivano rinchiusi i sospetti di terrorismo, l’ipotesi d’accusa del 2019 si era afflosciata come un soufflé subito in cassazione. Il legale non era un affiliato alla ‘ndrangheta, avevano detto gli alti magistrati, e neanche era responsabile di rivelazione di segreti d’ufficio e di abuso in atti d’ufficio. Non era stato “promotore” di cosche mafiose neanche come soggetto esterno. Però un po’ esterno comunque era considerato, secondo quella vulgata sbirresca per cui l’avvocato è contagiato dall’assistito, così, oltre a essere considerato un intralcio allo svolgimento del processo, è per forza il sodale della persona che difende. Se assiste il mafioso, o presunto tale, in qualche modo è un po’ mafioso anche lui.

Le accuse che lo riguardavano erano frutto di intercettazioni. Nella sbobinatura di una delle quali era addirittura risultata, da una perizia di parte, l’aggiunta di un avverbio che nel testo verbale non esisteva. Non è un particolare da niente, perché Giancarlo Pittelli è sospettato di aver divulgato al proprio assistito notizie apprese dal verbale di un “pentito”. Il che, per noi giornalisti, e in particolare per chi è stato cronista giudiziario, fa solo ridere. Ancora ieri alcuni quotidiani erano invasi da intercettazioni (coperte da segreto) tra mister Viperetta e la figlia. Da Mani Pulite in avanti alcuni pm hanno continuato a depositare gli atti direttamente in edicola. E nessuno di loro è mai stato neanche indagato. Di che cosa ci scandalizziamo, dunque?  Comunque l’avverbio che non c’era è “ancora”. Perché un conto è dire non ho visto la deposizione di Tizio, altro conto è dire non l’ho “ancora” vista. Sono cose così quelle per cui Giancarlo Pittelli è un murato vivo, un prigioniero politico di un Paese democratico, il Patrick Zaki italiano. Sono le cose che aveva scritto al deputato Vittorio Sgarbi, l’unico parlamentare che lo aveva visitato nel carcere di Nuoro e che gli ha promesso un’interrogazione. Sono le stesse scritte alla ministra Carfagna in una lettera che gli è costata il terzo arresto. Tra pochi giorni è l’anniversario del blitz. E poi è Natale. Rimandate a casa l’avvocato Pittelli, se l’Italia non è l’Egitto.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.