Fare politica talvolta è un’impresa, fare impresa è spesso politica. Ma i due ambiti, separati e talvolta opposti, in Italia hanno avuto momenti di contaminazione e ibridazione forte. Le origini sono antiche: Camillo Benso conte di Cavour era tra i più importanti imprenditori agricoli piemontesi, noto per l’introduzione di macchinari inglesi nella coltivazione delle sue terre, quando accettò l’incarico di formare il governo del Regno di Sardegna. Tenne strette le aziende e proseguì dividendosi tra la contabilità privata e il bilancio dello Stato anche nei primi anni del Regno d’Italia. Ma si trattò in quegli anni di casi isolati, eccezioni piuttosto rare. Dalla Costituente fino alla fine della prima Repubblica gli imprenditori e i politici rimasero a debita distanza. Con le ideologie divisive e i leader politici carismatici, il ruolo degli uni e degli altri nella società era ben distinto e la politique politicienne non ammetteva troppe commistioni.

Certo, faceva politica (a destra) l’armatore Achille Lauro, proprietario e dirigente di una delle più importanti flotte mercantili italiane. E faceva politica Adriano Olivetti, che peraltro aveva fondato da giovane il giornale L’Azione Riformista, negli anni Cinquanta diede vita al movimento politico Comunità, con il quale entrò nel 1956 a Montecitorio dove si iscrisse al Gruppo misto. E ci fu Umberto Agnelli che dai vertici Fiat – e presidente della Juventus – negli anni Settanta transitò per il Senato, nelle file della Dc. E sempre nello scudo crociato militò Francesco Merloni, figlio di Aristide Merloni, fondatore dell’Ariston e delle Industrie Merloni, entra in Parlamento, per la prima volta e come senatore, nel 1972 con la Democrazia Cristiana. Sarà rieletto anche in altre sei legislature (di cui cinque alla Camera e un’altra al Senato).

Ma la politica come professione – per usare le parole care a Max Weber – fu la regola. Almeno fino al 1993-’94. Con l’inchiesta Mani Pulite, la nuova legge elettorale e l’avvio della seconda Repubblica, le cose iniziarono a cambiare. Perché il motore stesso della nuova linfa politica si chiama Silvio Berlusconi. È un imprenditore puro, fino a quel momento: costruttore e editore, non aveva mai trasceso il suo ruolo. Ma con l’ormai leggendario discorso di Arcore, recapitato con decine di videotape simultaneamente alle televisioni italiane, fece sapere di «voler scendere in campo». E Forza Italia fu il primo soggetto a mutuare la forma dell’azienda da cui originava, Publitalia. La “promozione” dei manager pubblicitari nei ruoli dirigenziali del partito fu il primo passo. E fu Paolo Bonaiuti a occuparsi per primo della macchina organizzativa, mettendo a punto il primo “kit del candidato”: con centomila lire si poteva acquistare una scatola contenente la tessera, una cravatta, una spilla e un volume in cui veniva illustrato il manifesto politico del primo partito-azienda. Era nato il partito plug-in.

Tanti altri emuli seguiranno. O ci proveranno, come Italia Futura di Luca Cordero di Montezemolo, che mancò l’aggancio con gli elettori. I succedanei della Dc – pur ricorrendo al mondo dell’impresa – non troveranno mai in quel terreno un candidato di punta. Neanche con Vittorio Cecchi Gori. L’imprenditore fiorentino viene eletto senatore nel Partito Popolare Italiano dal 1994 al 1996. Nel momento del voto di fiducia al primo governo Berlusconi, si assenta dall’aula favorendo così l’insediamento del nuovo presidente del Consiglio. Nel 1996 viene riconfermato nel collegio 1 della Regione Toscana. Nel 2001 si candida con L’Ulivo nel collegio di Acireale ma raccoglie solo un terzo dei voti necessari ad essere eletto. Nelle tornate successiva a misurarsi con il mondo dell’impresa sono principalmente Forza Italia e il Pd.

Ha fatto parlare molto di sé Massimo Calearo, ex presidente di Federmeccanica, voluto da Walter Veltroni capolista Pd alla Camera dei deputati nel 2008. L’industriale vicentino era stato convinto da Paolo Giaretta – Senatore dem e segretario regionale veneto di allora – che al momento di presentarlo agli elettori rilasciò dichiarazioni interessanti: «Il Pd aveva bisogno di trovare una persona veramente nuova e rappresentativa del miracolo veneto, insomma un imprenditore estraneo alla storia del centrosinistra. Sia chiaro: ne abbiamo di industriali che votano per noi. Massimo e Mario Carraro, Marina Salamon, Giuseppe Bortolussi, per fare dei nomi illustri. Io invece ho voluto trovare una persona in grado di segnare la discontinuità, l’inizio di una stagione nuova. Questo è Massimo Calearo».

Nella stessa mandata arriva in Parlamento Matteo Colannino. Il curriculum è di tutto rispetto: Colannino è presidente ad interim del Gruppo Piaggio, amministratore delegato e vicepresidente di Omniaholding spa. Consigliere di amministrazione di IMMSI s.p.a. e di Omniainvest SpA. Ma anche uomo politico ormai rodato. Fu Veltroni, come per Calearo, ad annunciarne la candidatura come capolista nella circoscrizione Lombardia 1 alle elezioni politiche del 2008.

Le Camere rappresentano tutte le categorie imprenditoriali e non fa eccezione la sanità. Antonio Angelucci, patron di una rete di cliniche private, è in Parlamento da quattro legislature. È stato nel Popolo della Libertà, poi in Forza Italia e oggi è con la Lega. Fa discutere il suo appetito editoriale, sul quale però un avversario politico come Matteo Renzi non trova da ridire: «Se un imprenditore ci mette soldi e investe, garantendo il livello occupazionale dei lavoratori, è sempre una buona notizia». E se si parla di celebrare buone notizie con un brindisi, il pensiero va all’ex deputata siciliana Gea Schirò Planeta. Sposata con Alessio Planeta, imprenditore vitivinicolo e dal 2017 presidente di Assovini, l’onorevole Schirò Planeta (eletta nel 2013 con Scelta Civica e passata poi nel Pd) ha differenziato le attività di famiglia fondando nel 2008 la casa editrice Gea Schirò. Una legislatura sola, per lei. Porte girevoli e via, senza rimpianti. Con Lamberto Dini venne eletto nel 1996 Mario D’Urso, avvocato d’affari e membro del Cda della ‘Lehman Brothers’. Legato da profonda amicizia a Fausto Bertinotti, morendo gli lasciò un’eredità di 500 mila euro, pari a un miliardo delle vecchie lire. E un importante numero di dipinti pregiati.

Luminosa anche la carriera di Gianfranco Librandi, oggi deputato di Italia Viva, transitato in precedenza da Forza Italia al Pd. Librandi è titolare di Tci, azienda italiana leader mondiale nella produzione di componenti elettronici per l’illuminazione: esporta led in tutto il mondo, ma è in Parlamento che fa brillare, a colpi di votazioni, quelli del tabellone. In passato era stato candidato alla Camera dei Deputati alle elezioni del 2013 nelle liste di Scelta Civica con Monti per l’Italia (in terza posizione), venendo eletto deputato della XVII Legislatura. Ed è stato dietro a Italia C’è, il movimento poi confluito in +Europa. Sul versante del centrodestra di governo, non si può non parlare di Daniela Santanché, Adolfo Urso e Guido Crosetto. Il titolare della Difesa lasciò l’università, alla scomparsa del padre, per prendere le redini dell’azienda di famiglia. «Macchine per l’agricoltura, da un secolo», sottolinea il ministro con orgoglio.

E ci sono poi gli imprenditori che si preparano ai blocchi di partenza. Pronti per l’Europa. Stefano Bandecchi, imprenditore ternano, patron dell’Università Cusano Campus ha vinto diverse amministrative – tra cui quella per il sindaco di Terni – con la sua Alleanza Popolare. Ora prepara le liste per le Europee. E Forza Italia che, tra gli altri, alle Europee candida Letizia Moratti e Paolo Damilano, due storie imprenditoriali di successo diverse che si intrecceranno nel ticket delle schede perché entrambi correranno nel collegio Nord-Ovest. Ieri le due candidature sono state ufficializzate da Antonio Tajani. E domenica a Milano sarà proprio una kermesse di imprenditori milanesi e lombardi a lanciare la campagna della Moratti.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.