Pochi giorni fa il Consiglio dei Ministri ha approvato, in esame preliminare, un decreto legislativo di attuazione della Legge delega di riforma del processo penale che ha l’arduo obiettivo di ridurre i tempi dei processi penali e tentare di risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri. Infatti, come emerso chiaramente dai dati del 2021 e dell’inizio del 2022, il numero di detenuti in carcere ancora in attesa di giudizio è sempre in aumento.

Tale dato è assolutamente in contrasto non solo con i principi costituzionali ma anche con le stesse disposizioni del codice di procedura penale che stabilisce come la custodia cautelare in carcere vada applicata quale extrema ratio. Ebbene, risulta singolare, analizzando attentamente i dati forniti, non solo come spesso e volentieri tali misure vengano applicate per reati di minore allarme sociale ma anche come vengano applicate a soggetti in attesa di giudizio e quindi, in ossequio al principio di non colpevolezza, potenzialmente innocenti. Tale modus agendi è evidentemente frutto di una politica criminale sempre più giustizialista ma assolutamente contro producente per lo Stato che vede, per altro, sempre in aumento i risarcimenti per ingiusta detenzione.

È evidente come tale politica criminale sia figlia di un retaggio cultural – popolare secondo cui un indagato è sicuramente colpevole prima ancora che sia fissata la prima udienza dibattimentale. Siamo tornati, quindi, secondo quanto riportato dai mass media, ad un processo penale di tipo inquisitorio. Ebbene è chiaro come ciò sia in completa antitesi con il modello accusatorio del processo penale che si fonda sul principio di non colpevolezza e sul rispetto dei diritti umani sanciti non solo dalla carta costituzionale ma anche dal Legislatore sovranazionale. In quest’ottica ed in applicazione di tale malsana politica, si innesca quale naturale conseguenza, il sovraffollamento delle carceri che si trovano ad ospitare un numero eccessivo di detenuti rispetto alla capienza massima prevista, per altro, in strutture fatiscenti, gelate d’inverno e roventi d’estate.

Ebbene, i detenuti sono costretti a condividere anche in nove celle adibite ad un massimo di cinque o sei persone; gli educatori sono pochi rispetto al numero di detenuti; gli spazi comuni non sono sufficienti, o addirittura inesistenti; in alcuni casi le docce possono essere utilizzate solo due volte a settimana. Appare chiaro come in un contesto del genere non solo il detenuto in custodia cautelare dichiarato innocente e scarcerato perderà fiducia nelle istituzioni, ma quello dichiarato colpevole non riuscirà ad intraprendere un percorso rieducativo così come richiesto dalla nostra carta costituzionale.

In tale contesto applicare la misura cautelare in carcere per un soggetto in attesa di giudizio per un reato di non particolare allarme sociale, nei casi in cui le esigenze cautelare potrebbero essere soddisfatti con, ad esempio, la misura degli arresti domiciliari, non solo viola le norme costituzionali e del codice di procedura penale, ma è sintomo di non conoscenza del contesto carcerario che può in questi casi soltanto peggiorare le cose. Sarebbe quindi auspicabile una riforma integrale dell’ordinamento penitenziario, una riforma strutturale delle case circondariali ed un utilizzo più moderato della misura cautelare in carcere.

Certamente il percorso intrapreso con la riforma Cartabia è promettente, ma è necessario ed assolutamente urgente che si intervenga sia sul tema dell’eccesivo utilizzo delle misure carcerarie sia, soprattutto, sulle condizioni di vita dei detenuti. Infatti, già la sola privazione della libertà rappresenta di per sé una grandissima limitazione ma se tale restrizione diventa inumana, se il detenuto viene privato dei propri affetti e della propria privacy, così come spesso accade nelle carceri italiane, significa privare i detenuti della speranza per un futuro migliore e quindi neutralizzare definitivamente lo scopo rieducativo della pena che verrebbe ad essere nuovamente una mera punizione.