Da alcuni giorni è stata consegnata alla guardasigilli Marta Cartabia la relazione finale della Commissione ministeriale incaricata di elaborare l’ennesima proposta di riforma della giustizia. Le conclusioni del lavoro della Commissione sono ora al vaglio della ministra che farà le sue valutazioni in vista della presentazione degli emendamenti governativi al disegno di legge di riforma del processo penale attualmente all’esame del Parlamento. Tra i numerosi e delicati argomenti toccati dal progetto di riforma (prescrizione, durata delle indagini preliminari, allargamento dell’area dei reati punibili a querela, determinazione del Parlamento sui criteri di esercizio dell’azione penale e altro ancora), spicca il paragrafo dedicato ai “rimedi compensatori e risarcitori conseguenti al mancato rispetto dei termini di ragionevole durata del processo penale” (tre anni per il primo grado, due anni per l’appello e uno per la Cassazione).

La proposta formulata dalla Commissione prevede che, in caso di irragionevole durata del processo, il condannato possa chiedere al giudice una congrua riduzione della pena a titolo di compensazione per il pregiudizio subito, mentre, se la diminuzione di pena è addirittura superiore all’ammontare della pena inflitta, il giudice dichiara ineseguibile la pena in ragione dell’accertata violazione del diritto dell’imputato alla ragionevole durata del processo. Detto in soldoni, di fronte alla certificata incapacità dello Stato italiano di assicurare una giustizia in tempi brevi e ragionevoli, come avviene invece in tutto il resto del mondo occidentale, si prevede una sorta di “risarcimento in natura” per cui la durata della pena viene ridotta in modo inversamente proporzionale alla durata del giudizio, ovvero addirittura si rinuncia del tutto all’esecuzione della pena.

Per essere ancora più chiari, a fronte dei dati statistici che attestano come il giudizio di primo grado faccia registrare in Italia una durata media tre volte superiore a quella europea, mentre quello di appello è superiore addirittura di otto volte, invece di porsi seriamente il problema di come ridurre i tempi del processo rispettivamente a un terzo (per il primo grado) e a un ottavo (per l’appello) di quelli attuali, non si trova di meglio che mescolare le mele con le pere, aggiungendo alla beffa il danno. Come se l’assurdità di un processo interminabile possa venir meno o risultare mitigata per il semplice fatto che al condannato (magari per un reato molto grave come l’omicidio o la violenza sessuale) venga riconosciuta una congrua riduzione della pena. D’altra parte, occorre osservare che la previsione di rimedi di natura risarcitoria per ovviare alle manchevolezze dello Stato nel perseguire in tempi ragionevoli e secondo umanità gli autori dei reati si inserisce sul solco di una progressiva e sempre più allarmante visione mercantilistica della giustizia penale.

È la stessa “filosofia” alla base della norma dell’Ordinamento penitenziario che, per il caso di sovraffollamento carcerario, già oggi prevede una riduzione della pena detentiva pari a un giorno ogni dieci, ovvero una somma di denaro pari a otto euro per ciascuna giornata nella quale il detenuto ha subito il pregiudizio. Invece di cercare dei rimedi concreti per ridurre i tempi dei processi e rendere più vivibili le carceri, si risolve il problema diminuendo la durata della pena, senza che il detenuto abbia fatto alcunché per meritarselo, al di fuori di ogni logica di carattere premiale e rieducativa.

Prima ti faccio stare sulla graticola con un processo infinito, poi ti rinchiudo in gabbia come un animale in una cella piccola e stretta, magari con altri tre o quattro detenuti, e infine, in cambio del trattamento da terzo mondo che ti ho riservato, ti faccio uscire un po’ prima di galera, magari con tante scuse, oppure ti elargisco una mancetta. Quasi peggiore il rimedio (all’italiana) che il danno.