Esteri
Quale è la strategia di Trump sui social: tutti i segreti della comunicazione del presidente Usa

Qualche giorno fa ho avuto la fortuna di seguire un’interessante lezione di Alessandro Campi che, tra le altre cose, spiegava ai corsisti del Master in Comunicazione politica della Luiss quanto ai nostri giorni si è portati a ritenere erroneamente che anche un solo post pubblicato dall’account di un leader possa essere considerato alla stregua di un pensiero politico, che ha invece un parto e delle articolazioni molto più profonde. Un’idea alquanto stramba per il professore che insegna Storia delle dottrine politiche a Perugia; eppure, se osserviamo le trasformazioni strutturali che hanno investito la comunicazione politica in questi ultimi anni, in particolare dalla pandemia in avanti, questa semplificazione sembra non essere più una bestemmia accademica. Un’asinata tale da far rivoltare nella tomba i vari Locke, Hume, Kant o Constant.
Del resto, è sufficiente scrollare i post pubblicati dagli account social del presidente Donald Trump per rendersi conto di come anche un elementare e banale contenuto social, che ha peraltro una vita media molto breve, proprio grazie all’enormità dell’audience che riesce a ottenere può diventare se non un pensiero politico compiuto, comunque un posizionamento di tipo strategico. Va anche detto – a scanso di equivoci – che il posizionamento non ha una minore efficace o funzionalità rispetto al più nobile pensiero politico. Anzi, se consideriamo quanto la digitalizzazione e la piattaformizzazione della nostra quotidianità e delle nostre vite hanno contributo ad accelerare i tempi di adozione delle decisioni pubbliche complesse, allora ci si rende conto che la politica nell’era dell’Intelligenza Artificiale trova il suo primo livello di legittimazione proprio in esso. Il posizionamento non ha soppiantato il pensiero politico, ma ne è diventato il surrogato irrinunciabile per gli attuali tempi della comunicazione, e in quanto tale ha la necessità di assumere la forma del post, da X a Instagram, da TikTok a WhatsApp.
In sintesi, nell’era della politica dell’audience, per conquistare il consenso e per orientare a proprio favore la cangiante opinione pubblica digitale, non serve tanto affidarsi a leader capaci di finissime elaborazioni politiche se poi al contempo non sono in grado di raggiungere una pluralità di pubblici, di farlo senza alcuna intermediazione e a tempo zero. Così, se rinunciamo del tutto alle scorie di un certo snobismo accademico e accettiamo la validità di questo nuovo paradigma della comunicazione, ecco che le pubblicazioni social di Trump diventano rivelatrici dei tempi che viviamo. Altrimenti, se adottiamo unicamente i canoni classici che hanno segnato le forme e i linguaggi della comunicazione politico-istituzionale negli ultimi vent’anni, è assai facile cadere a piè pari nella trappola di considerare i contenuti pubblicati alquanto improbabili, di derubricarli colpevolmente come assurdi, spiazzanti e irrituali. Anche l’ultimo reel, realizzato con qualche app di IA, su come sarà Gaza dopo la cura Trump, che ha totalizzato oltre 21 milioni di visualizzazioni, 418mila like e altri 44mila commenti, è a pieno titolo un prodotto di questa mutazione genetica, che sta attraversando la comunicazione politica e che ha come portato principale la conquista dell’attenzione digitale misurabile nell’audience delle interazioni.
Come ha scritto Luca De Biase l’altro giorno su Il Sole 24Ore, la strategia trumpiana di presidio delle piattaforme da un lato punta alla “massimizzazione” dell’audience e dall’altro è costruita a partire dal social listening, ovvero dallo studio delle interazioni comportamentali dei follower.
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