Le epidemie si somigliano tutte. Che siano di origine batterica o virale poco conta. Leggendo il Decamerone e i Promessi Sposi si osservano stupefacenti analogie tra la situazione attuale, la peste del 1348 e quella del 1628. Il giornalista Gigi Di Fiore estende la casistica esaminando nel suo saggio storico Pandemia 1836, La guerra dei Borbone contro il colera (Utet, 208 pp.) l’arrivo del Cholera morbus asiatico nel Regno delle Due Sicilie, allora governato da Ferdinando II. È un’epoca molto più vicina a noi, rispetto alle due epidemie di peste, e la medicina era sicuramente progredita.  Fin dal 1821 era stata decretata l’inoculazione del vajuolo vaccino, ma senza avere ancora consapevolezza del motivo per cui agisse efficacemente nella prevenzione della malattia. Era una medicina, sì evoluta, ma pur sempre empirica: fai un po’ di questo, provi un po’ di quello e vedi cosa funziona e cosa no.

Il colera era una malattia sconosciuta e ripugnante. Ci si ammalava e si moriva per disidratazione, dopo aver rimesso gran parte dei fluidi corporei in accessi irrefrenabili di vomito e diarrea. Il colera, o la colera, come la chiamava Giacomo Leopardi -che in quegli anni si trovava a Napoli ospite del giornalista Antonio Ranieri e che forse morì proprio per un attacco fulminante di colera-, ha la stessa radice di “collera”. In entrambi i casi il riferimento è al temine greco cholè, cioè bile (gialla), scaricata con violenza dal coleroso e sovrabbondante nel collerico, secondo la teoria dei quattro umori di Ippocrate (il sangue, la flemma, la bile nera e, appunto, la bile gialla, che influenzano il temperamento degli individui). La causa della malattia, il batterio (vibrione) del colera, fu identificata solo nel 1854 dall’anatomopatologo toscano Filippo Pacini, troppo tardi per essere di aiuto nell’epidemia di quasi venti anni prima.

E così il Regno delle Due Sicilie si ritrovò con mezzi insufficienti a fronteggiare il contagio, come d’altronde tutti i Paesi che ne vennero colpiti. Infatti, sebbene il cammino del colera dall’Asia, dove si era manifestato inizialmente, fosse stato lento e i primi a essere invasi fossero gli Stati settentrionali dell’Italia Preunitaria (il Regno di Sardegna, il Lombardo-Veneto, i Ducati e Granducati), il tempo a disposizione e le misure di contenimento predisposte dal re e dalle autorità sanitarie non ne impedirono l’ingresso. Il cordone sanitario, espressione già adottata allora, predisposto intorno al Regno si dimostrò permeabile all’infezione da terra e dal mare. Ed eccoci quindi al principio della vicenda avventurosa e drammatica narrata, con scrupolo di storico e brio di giornalista, da Gigi Di Fiore, che si compiace di riportare le parole scritte e pronunciate dai testimoni dell’epoca. Testimoni che parlano un italiano contemporaneo a quello del Manzoni, elegante, sonoro e, alle nostre orecchie abituate a frasi fatti ed espressioni convenzionali, stupefacente per libertà espressiva ed originalità lessicale. Il nemico si avvicina. È alle porte. È entrato. Ci siamo: è l’autunno del 1836.

Quello che era stato possibile fare era stato fatto. In ottemperanza all’articolo 22 dell’8 marzo 1832, del Regolamento generale per difendere la città di Napoli dal colera-morbo, «Qualora disgraziatamente il morbo si manifestasse in qualche punto del regno, ovvero ne minacciasse da vicino la frontiera, la Capitale verrà segregata e custodita per mezzo di due cordoni sanitari». Come una fortezza che, in previsione dell’assedio, si circonda di un muro e di un fossato. Purtroppo, neanche questo servì. E il colera fece il suo ingresso a Napoli, dove trovò condizioni igieniche che favorirono la rapida diffusione. I bassi napoletani e i quartieri popolari fornivano esca e combustibile all’insorgenza e alla propagazione dell’incendio, diventando altrettanti focolai epidemici. I medici non sapevano il perché, ma la sporcizia e il sovraffollamento delle case erano evidentemente fattori che predisponevano al contagio.

Di Fiore riferisce che il professor Federigo, dell’università di Padova, avvertì i colleghi napoletani che «si trasmette esclusivamente per mezzo delle comunicazioni cogl’individui che sono infetti di questo germe, o per l’uso di cose che lo nascondono, e che comparisce nei luoghi in cui si operano queste comunicazioni». L’idea che la causa della diffusione del colera fosse il contatto e la trasmissione di qualche materia organica, induceva a tentare metodi rudimentali di disinfezione. L’amuchina di allora era l’aceto e la varechina era la calce viva. Un’intuizione abbastanza felice, osservandola dalla prospettiva del 21° secolo. Tutti i sospetti di contagio e i “congiunti” dei contagiati dovevano rispettare la quarantena e restare in isolamento o, come si diceva a quei tempi, “in contumacia”. Oggi gli uomini politici, o almeno quelli di loro che vogliono dare il buon esempio, se sospetti di aver contratto la malattia, vanno in isolamento volontario e fiduciario. Il Borbone non volle essere da meno, ci dice Di Fiore, riportando quando scritto da Antonio Parisi nell’Annuario storico del Regno delle Due Sicilie (1° settembre 1836): «Tenendo Ferdinando II nell’animo suo la massima che chi fa leggi dev’essere il primo ad osservarle, ne diè in questa occasione luminoso esempio, avendo voluto trattenersi nella rada per eseguirvi la contumacia, e non avendo voluto sbarcare che dopo quattro giorni, malgrado le istanze che gliene fossero state fatte».

Ma intanto le morti si moltiplicavano e come noi fummo scossi dalle immagini dei veicoli militari che portavano i feretri, i Napoletani erano atterriti dalla visione dei “pianoforti”, come avevano ribattezzato le bare, con quella loro innata propensione a mescolare comico e tragico. Pulcinella con frizzi e lazzi esorcizza la paura della morte. Eppure dopo il tramonto risuonava lugubre il grido dei monatti napoletani «Chi ha morti, li cavi!». E allora altri provvedimenti restrittivi, altri Dpcm, diremmo noi. All’inizio «dopo le ore 24.00 non si giri da nessuno né a piedi né in vettura senza necessità», poi divieto di «affollamenti per le strade e in tutti i siti pubblici», quindi proibizione di trattenersi nei «magazzini di qualunque genere oltre il tempo necessario», infine «gli affollamenti dovranno esser sempre vietati». Tuttavia le esigenze sanitarie confliggevano con quelle commerciali. I negozi si svuotavano di clienti, i commerci terrestri e marittimi languivano. Per evitare il collasso dell’economia fu necessario allentare, appena la situazione lo permise, le restrizioni.

Tutti paralleli perfetti con la situazione attuale. Cosa ci manca ancora? Leggete quanto dice in quei giorni Giuseppe Buttà, cappellano militare: «I medici si divisero di opinioni, come suole accadere in simili eventualità; taluni sostenevano che il colera non fosse contagioso, altri affermavano tutto all’opposto. Vi erano esempi che davano ragione a tutti»… Anche questo ci suona familiare. Virologi che si sconfessano e scomunicano reciprocamente. Gli scienziati son pur sempre uomini e quindi succubi alle umane debolezze. Non vi basta? Alle prime avvisaglie di miglioramento, liberi tutti! Si parlò di «declinazione del morbo». A quel tempo non era facile andare in vacanza in Croazia, altrimenti avremmo visto ballare la Tarantella a Zara e Spalato.

E a chi li avesse rimproverati, avrebbero risposto che era stato l’Arcivescovo di Napoli, Filippo Giudice Caracciolo a dirgli di avere fede e di non preoccuparsi più: «Taluni di voi, ne dubitiamo purtroppo, taluni timidi, ne quali la fiducia in Dio è così languida come la fiamma di un lume, che per mancanza di alimento va a smorzarsi, già parlano di nuova aggressione del morbo, già temono, e ne attristano: uomini di poca fede fatevi coraggio». C’è sempre qualche personalità di alta dottrina e grande autorità da invocare, per giustificare le proprie leggerezze.
Ma, a dispetto delle confortanti profezie, la seconda ondata arrivò, allora come oggi, e fu più terribile della prima. Forti di quanto ci ricorda Gigi Di Fiore, facciamo che stavolta non sia così. Nel saggio sono contenuti altri cento aneddoti, curiosità e riflessioni, di cui non parlo, per tre ottimi motivi che sono, in ordine decrescente di importanza: per non guastare il piacere della lettura, per non spoilerare il libro e… perché ho esaurito le mie ottomila battute!