PQM
Quanto è difficile per una donna fare l’avvocato: la diffidenza dei clienti, le difficoltà della maternità, i patrocini ‘inadatti’. La questione di genere non finisce in tribunale

Virginia Woolf diceva che se una donna ha intenzione di scrivere romanzi, deve possedere denaro e una stanza tutta per sé. Era la fine degli anni Venti, e la scrittrice si riferiva a quanto fosse ancora difficile per le donne potersi dedicare all’arte, in una società in cui il lavoro creativo era appannaggio quasi esclusivamente maschile ed era tutt’altro che scontato, per una donna, avere del denaro proprio e uno spazio personale (fisico e metaforico), libero da interferenze esterne, in cui potersi dedicare alle proprie passioni. Passato quasi un secolo, quelle parole – con le dovute distinzioni – sembrano ancora valide in molti ambiti, non escluso quello della professione forense femminile.
Il divario con gli avvocati
Prendiamo le due necessità indicate da Woolf come imprescindibili e proviamo a guardare attraverso di esse lo “stato dell’arte” per le avvocate. Intendendo il denaro come reddito, il divario con i colleghi uomini è ancora importante: il rapporto annuale del Censis sulla situazione dell’avvocatura del 2024 registra una differenza tra il reddito medio maschile e quello femminile di circa trentamila euro. Il dato va letto insieme a quelli che ci sono stati consegnati dal lavoro svolto nel 2022 dall’Osservatorio Pari Opportunità dell’UCPI, che ha diffuso tra le iscritte un questionario volto ad approfondirne la condizione professionale: tra i molti risultati interessanti, significativo è quello sull’iscrizione negli elenchi dei difensori d’ufficio e del patrocinio a spese dello Stato, dove è netta la prevalenza femminile (rispettivamente al 60,4% e addirittura al 78,8%). Non è un caso, quindi, che a cancellarsi dall’Albo, rinunciando alla professione, siano in prevalenza donne, costrette ad arrendersi alla difficoltà estrema di conciliare il carico familiare, di cui tuttora sono le principali portatrici, con un lavoro che non prevede sconti di tempi ed energie, il più delle volte senza che al sacrificio corrispondano guadagni adeguati. E quelle che invece all’Albo si iscrivono, ce l’hanno oggi “una stanza tutta per sé”? Il riferimento non è ovviamente alla stanza fisica all’interno di uno studio legale (sebbene anche questo aspetto, soprattutto per una giovane avvocata, sia tutt’altro che scontato, legato com’è a quello del reddito), ma a un’idea di stanza intesa come spazio. Uno spazio riconosciuto, non rubato né gentilmente concesso, ove svolgere con dignità la professione.
Lo spazio nell’avvocatura
Da un punto di vista strettamente numerico, lo spazio nell’avvocatura le donne se lo stanno prendendo (al 2024 erano poco meno della metà degli iscritti, ma il dato è da leggere insieme a quanto appena scritto sulle cancellazioni). Molti, però, sono ancora da riempire. Spazio nella percezione sociale dell’avvocata, troppo spesso ancora vista dal cliente con diffidenza o percepita come poco autorevole, specie se giovane. Spazio nell’esercizio delle proprie competenze in materie che non siano quelle legate alla famiglia e alle cosiddette fasce deboli, verso le quali si tende a ritenere che le donne abbiano una naturale propensione, mentre è nettamente inferiore la presenza femminile in processi, ad esempio, per reati tributari, o di diritto societario. Spazio ai vertici delle istituzioni forensi, ove le donne sono sottorappresentate. Spazio nei convegni, dove, nonostante alcuni apprezzabili passi degli ultimi anni, non è raro vedere file di colleghi uomini seduti uno accanto all’altro al tavolo dei relatori, in una continuità talvolta solo spezzata da una presenza femminile, invitata nel maldestro tentativo di evitare possibili polemiche. Spazio per vivere una maternità tutelata, senza sentirsi costrette a presentarsi in udienza fino al giorno del parto, nel timore che il rinvio richiesto non venga concesso. Spazio per prestare la propria assistenza professionale a chiunque, a prescindere da quale sia la fattispecie contestata: siamo ormai avvezzi, per la regolare, incresciosa cadenza con cui simili episodi si verificano, a leggere di avvocate insultate e minacciate, nelle aule di udienza e sui social, per il solo fatto di aver assunto la difesa di persone indagate o imputate di reati che di quella difesa sono ritenuti immeritevoli, e per i quali è considerato un abominio che a esercitarla siano donne. In questi casi, alla consueta e deprecabile identificazione, nel comune sentire, tra il difensore e il proprio assistito, si aggiunge la convinzione – se non di tutti, certo di troppi – che vi siano reati per i quali le donne dovrebbero rifiutarsi di esercitare il patrocinio, specie quando commessi nei confronti di altre donne.
Una questione di genere
Difficile negare, insomma, che ancora esista una questione di genere nell’avvocatura. Non è questa la sede per indagarne le cause (in gran parte note e radicate lontano nel tempo), né per proporre miracolose soluzioni istantanee. Volgendo lo sguardo al futuro, però, e pensando a chi muove o muoverà i primi passi nella professione, si scorge una ragione di fiducia: le neo avvocate avranno sempre più modelli a cui guardare e da cui trarre ispirazione. Modelli che ai giovani uomini non sono mai mancati e che da sempre costituiscono una delle – molteplici – ragioni di maggior loro sicurezza sin dagli esordi. Se è vero (e lo è) che è più facile identificarsi in chi si percepisce simile a sé, si comprende quanto sia vitale, anche nella costruzione della propria identità professionale, poter attingere a positivi esempi di soddisfazione e traguardi raggiunti. Le “stanze” delle avvocate, allora, saranno sempre più numerose.
© Riproduzione riservata