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Dentro il carcere di Rebibbia: quando il penitenziario non vuole riconoscere la rivoluzione gentile del femminismo

Scrive Dacia Maraini che “il femminismo è una rivoluzione pacifica che ha cambiato il modo di stare insieme. Non ha fallito perché ha cambiato le leggi e quindi il mondo: diritto di famiglia, delitto d’onore, violenza sessuale. Manca però la parità vera tra uomo e donna. Perché si può cambiare una legge, ma una mentalità è radicata. In Italia è ancora difficile accettare che una donna sia autonoma e libera”. Sono stata anch’io una femminista che ha contribuito a fare una “rivoluzione gentile” e poi ho incontrato come volontaria il carcere, che è esattamente il contrario, l’ambiente più maschile, conservatore, a volte anche scortese che ho conosciuto nella mia vita.
L’esperienza a Rebibbia
Nei giorni scorsi sono entrata nel carcere di Rebibbia come testimone delle nozze tra una persona detenuta e la sua compagna e mi è tornata in mente questa riflessione sul femminismo: perché ho trovato ancora una volta, in parte dell’amministrazione penitenziaria, la negazione di quello che ho imparato dal femminismo, che è dare valore alle emozioni, alla tenerezza (“La tenerezza è un modo inaspettato di fare giustizia”, ha detto Papa Francesco), non avere paura di apparire disarmate. A Rebibbia sono entrata nello spazio dei famigliari che attendono per i colloqui e mi è stato detto, da poliziotti penitenziari che indossavano tristi guanti trasparenti lunghi fino ai gomiti, che dovevo togliermi orecchini, sciarpa, un orologio Swatch del valore di 50 euro, dei vecchi foglietti di carta che avevo in tasca, ma soprattutto mi sono sentita una “nemica”. Come volontaria e come donna, direi. Ed è una sensazione che provo spesso nel mio rapporto con l’Istituzione carcere, un’istituzione così gerarchica che anche dove è gestita da donne stenta a mettere in discussione questa gerarchia e questa rigidità. E nell’ultimo gradino “gerarchico” pone i volontari, quelli il cui ruolo ho sentito una dirigente di Polizia Penitenziaria definire “comunque ancillare”.
Minimo di tutto
Dunque, donna e volontaria nell’ambito della giustizia vuol dire esserci “al minimo”: minimo di considerazione, minimo di autonomia, minimo di riconoscimento. Il femminismo mi ha insegnato anche a non amare il vittimismo; quindi io continuo comunque a non vedere nei poliziotti penitenziari dei nemici, e a non sentirmi quello che vorrebbero a volte farmi sentire, cioè una persona che deve accettare di non decidere nulla perché la sicurezza non è cosa che la riguardi. Non è facile neppure fare attività, per una donna impegnata nel volontariato, con le persone detenute. Recentemente ho discusso con alcune di loro di criminalità nelle nostre città e alla mia obiezione, che forse una città come Milano non è quella roccaforte del crimine che viene descritta ultimamente, mi è stato chiesto in risposta cosa ne sapessi io, che certo non esco di notte e non incontro il degrado e il crimine. Mi sono vista ancora come una donna che non sa, non conosce, va protetta. È un mondo antico, il carcere, pure per le donne detenute, forse anche perché una Istituzione che pone al centro la rieducazione è sempre a rischio di far scivolare la rieducazione in “obbedienza”, e di obbedienza ne sanno qualcosa da sempre le donne.
Far ritornare tutti ‘persone’
Per finire voglio ricordare Agnese Moro e il suo vivere l’esperienza di vittima in un modo che ha una grande forza innovativa e “rivoluzionaria”: “Tu diventi una vittima e ti devi comportare in un certo modo, devi odiare quell’altro, devi seguire una regola che ti costituisce come vittima, e noi invece dobbiamo tornare alle persone. Il bello della giustizia riparativa è che fa saltare tutti gli schemi di disumanizzazione e rimette persone, vive, una di fronte all’altra, con i loro pregi, i loro difetti, con i loro errori, con le loro risorse, persone tra persone, e questo è l’unico modo per ristabilire la giustizia: far ritornare tutti persone, quindi tutti come me, io come loro, e alla fine quindi tutti meritevoli di un uguale rispetto e pari dignità, questa è la cosa che viene turbata da qualunque atto di sopraffazione, di qualunque genere sia, che venga dai singoli, dalle organizzazioni, dalle istituzioni, la sopraffazione è fare di un essere umano una cosa”. Se la sopraffazione è fare di un essere umano una cosa, l’8 marzo delle donne, al contrario, ci può insegnare a far ridiventare esseri umani anche quelle persone che qualche volta si dimenticano di esserlo, a qualsiasi “categoria” appartengano, autori di reato, vittime, volontari, operatori penitenziari, magistrati, giudici, avvocati, ministri della Giustizia.
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