L’ultimo rapporto Istat sugli indicatori demografici rivela una situazione allarmante per il Mezzogiorno: tutte le regioni registrano un calo della popolazione (-7 per mille) peggiore rispetto a Centro (-6,4) e Nord (-6,1). Il Molise (-13,2) e la Basilicata (-10,3) registrano i dati più negativi; a livello provinciale le riduzioni più marcate riguardano Isernia, Benevento, Avellino, Campobasso, Potenza e Crotone; nelle isole il decremento demografico colpisce le province di Caltanissetta, Enna, Nuoro e Oristano. Il quadro è aggravato dalla pandemia che ha aumentato il tasso di mortalità e ridotto la mobilità residenziale interna, ma il trend negativo ha radici lontane.

Da oltre un 25 anni, infatti, si assiste a una profonda trasformazione strutturale della demografia italiana, caratterizzata da una continua riduzione delle nascite (1,24 è oggi il numero medio di figli per donna in Italia, nel Mezzogiorno scende a 1,23 quando era 1,34 nel 2008) e da un crescente numero di decessi che hanno portato l’età media della popolazione italiana a 46 anni (con gli over 65 che costituiscono il 23,5% del totale). I dati indicano che da più di un ventennio, nelle regioni meridionali, è in atto un processo di spopolamento che riguarda i centri urbani minori e le zone rurali interne. Se questa tendenza non si inverte, nel 2056, secondo l’Istat, le regioni meridionali dovrebbero perdere 5.084.813 dei 20.625.813 abitanti attuali, cioè un abitante su quattro: una vera e propria catastrofe demografica che contribuirà ad allontanare il Sud dalle aree più sviluppate dell’Europa.

Infatti, il declino demografico naturale restringerà la quota di popolazione attiva compresa tra i 15 e i 65 anni e, se a questo si aggiunge la ripresa dei flussi migratori e l’esodo del capitale umano più produttivo indotti dal peggioramento delle condizioni economiche (dall’inizio del nuovo millennio hanno lasciato il Mezzogiorno circa due milioni residenti: la metà di questi erano giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni e quasi un quinto era costituito da laureati), si può prevedere che nelle regioni meridionali la popolazione attiva  non sarà più in grado di sostenere quella non attiva ed economicamente non autosufficiente, aumentando la dipendenza del Sud dalle regioni più ricche del Paese.

In definitiva, se non si interviene su questo degrado demografico si innescherà un circolo vizioso che ridurrà ulteriormente il tasso di natalità, incrementerà l’emigrazione dei giovani e renderà meno attraente i flussi immigratori. Ecco la nuova questione meridionale. Le economie più sviluppate hanno reagito alla senilizzazione della società con efficaci misure di contrasto. Nel Sud l’azione di contrasto è stata finora inesistente perché insufficienti sono state le politiche di sviluppo. La ripresa demografica può essere innescata solo implementando programmi di crescita in grado di aumentare la fiducia delle famiglie per la procreazione e di trattenere il capitale umano. Perciò il Recovery Fund è un’occasione da non sprecare.