Ieri si sono svolti i funerali di Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, le due ragazze investite e morte il 22 dicembre, qualche giorno prima di Natale, a Roma, in un incrocio maledetto su Corso Francia. La foto che vi proponiamo in questa pagina mostra le due facce, contrapposte, di questa lunga settimana: per un verso, anche se non si vede, si intuisce il dolore. I fiori bianchi rimandano alle bare delle due giovanissime donne: il lutto assurdo
che ha colpito i genitori, la loro tenera età, la vita piena di promesse e attese che non si potranno più realizzare. È una scena che richiede silenzio, rispetto. La foto però mostra anche altro: le telecamere che incombono come moderni cerberi, la sovraesposizione, un accanimento che non può che infastidire. La morte diventa spettacolo, tv del dolore, processo mediatico. Da giorni i media si occupano del caso, con un’attenzione morbosa che difficilmente si riesce a pensare come partecipazione al lutto. Se così fosse, si sarebbe fatto un passo indietro, si sarebbe regalato alle famiglie coinvolte il silenzio necessario, si sarebbero spente le luci. Almeno una volta, almeno questa volta. Ma lo
“show” non può fermarsi, deve andare avanti, a tutti i costi. E alcuni siti web anche di giornali paludati hanno fatto la diretta dei funerali. Qualcuno, sui social, l’ha definita, giustamente, pornografia del dolore. In questa sceneggiatura da film di infima categoria, non poteva mancare “il mostro”, “il drogato” come lo ha definito non un titolo del quotidiano Libero, ma del giornale più venduto a sinistra, La Repubblica. Il quotidiano diretto da Carlo Verdelli ha fatto diventare un’azione – il fatto di aver assunto delle sostanze stupefacenti – l’identità di una persona: la ha inchiodata per sempre allo stigma di “drogato”. È una generalizzazione che nelle scuole di giornalismo ti insegnano a non fare…

Pietro Genovese, il ragazzo indagato per duplice omicidio stradale, dall’altro ieri è ai domiciliari. Il gip ha preso la decisione sostenendo che ci sia il rischio di reiterare il reato e ha indicato nell’alta velocità e nel tasso alcolico le cause principali dell’incidente mortale. Il giudice ha escluso l’aggravante della guida sotto effetto di stupefacenti, pur essendo risultato positivo sia alla cannabis che alla cocaina, perché «non si sa se l’assunzione dello stupefacente fosse recente». I domiciliari, con questi elementi e queste motivazioni, appaiono una scelta dettata comunque dalla pressione mediatica e dalla sentenza che “il popolo”, spinto da tv e giornali, ha già emesso: colpevole. Invece il processo va ancora fatto e purtroppo va fatto con la legge assurda sull’omicidio stradale, nata sulla spinta dal populismo penale: l’ideologia che anche papa Francesco ha condannato come uno dei mali della nostra contemporaneità. La brutta legge non ha funzionato da deterrente, non ha spinto i giovani a correre di meno, non ha reso le strade più sicure, le auto meno veloci e non ha spinto la scuola ad insegnare meglio e con maggiore convinzione l’educazione stradale. Ha però raggiunto il suo vero scopo: costruire – a norma di legge – perfetti colpevoli, capri espiatori su cui riversare tutte le colpe, su cui incanalare la rabbia delle persone. Una rabbia – come nel caso di Camilla e Gaia – giusta e comprensibile se espressa dai genitori. Ma il legislatore e la società, proprio in questi casi, dovrebbero avere la forza di capire la rabbia ma di andare oltre, di non farla diventare Stato di diritto.
Il gip, nella sua ordinanza con cui ha disposto la custodia cautelare, ha anche detto che le due ragazze non dovevano attraversare quella strada, che hanno avuto una condotta “vietata e spericolata”. Ci sarà un processo che definirà i fatti. Ma tutti sanno che quello è un incrocio temuto e terribile, dove quasi tutte le auto corrono e dove chiunque si poteva trovare lì, in quel momento, e vivere la stessa tragedia. Invece si è preferito sparare (simbolicamente) sul conducente dell’auto, decidere – prima del tempo – la sua colpevolezza che va ancora dimostrata e stabilita dal processo vero e proprio. La fama del genitore, questa volta, non ha giovato al giovane Pietro. In questi giorni abbiamo letto e visto di tutto.

Si voleva dimostrare in ogni modo quanto fosse un poco di buono, uno che non poteva non commettere qualcosa di terribile. La foto di lui a torso nudo, mentre beve un drink, andava in questa direzione. Era il ritratto di un giovane baldanzoso e arrogante, perfetto come omicida, seppure involontario. È la foto del prima, che non racconta lo shock, il dolore, la disperazione che lo ha colpito. È così che tentano di raccontarlo i familiari. Ma la società del processo mediatico, della presunzione di colpevolezza, la società del “tutti sono sempre colpe- voli”, non riesce a provare pietà, a identificarsi, e ha deciso: Pietro è il mostro. Ma, se si esce da questa reazione condizionata, forse si riesce a capire che al suo posto ci poteva essere anche uno di noi. E così provare almeno un po’ di pietà.

 

Ps: Ieri, ai funerali di Gaia e Camilla, durante l’omelia, il prete si è chiesto se “il senso della vita sia guidare sbronzi”, anche lui cadendo nella trappola che riduce una vita, la sua complessità a un episodio.  Quanta distanza dalle parole e dall’insegnamento di Bergoglio!

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