Luca Ricolfi è il sociologo e politologo che da trent’anni indaga il rapporto (conflittuale) tra politica e mondo reale. Gli abbiamo rivolto alcune domande a quindici giorni dal voto del 8 e 9 giugno.

A due settimane dal voto, sono ancora prevalenti gli elettori indecisi. E prevedibilmente tantissimi si asterranno dalle urne. La politica non attira più?
«Non vedo particolari discontinuità, semplicemente c’è un trend di lungo periodo di crescente disinteresse, forse anche (leggermente) accentuato dalla cancellazione del big-match Meloni-Schlein, una sorta di rivincita dei leader maschi dopo mesi di schermaglie tutte al femminile».
Ma serve ancora, la politique politicienne? Forse ha espletato la sua funzione vitale, ha esaurito la sua missione. E ora più che alta politica gli italiani vogliono una corretta amministrazione, che magari non fa sognare con grandi idealità, ma concede bonus e sgravi?
«Non ne sarei così sicuro. I bonus sicuramente interessano i segmenti beneficiati, ma la semplice corretta amministrazione non coinvolge e non fa sognare. La politica attuale è noia e ripetizione. E gli italiani si adeguano con il distacco dalla politica».

Giorgia Meloni più che decreti legge e informative alle Camere, fa video virali. Ieri sul redditometro ha sconfessato il viceministro all’Economia, Leo, su YouTube. È la politica disintermediata al tempo delle influencer, anche nelle istituzioni?
«Sì, Meloni disintermedia come tutti, con il vantaggio di avere la tribuna più alta. Ma la disintermediazione è fisiologica, con sindacati burocratizzati e un sistema dell’informazione iper-politicizzato».
Portare le istituzioni sul terreno di gioco dei social e di quella che Sartori chiamava videocrazia cosa comporta? Avvicinare le istituzioni alla gente o svilirle, annacquarle?
«C’è una grande differenza fra la videocrazia di cui parlava Sartori un quarto di secolo fa (Homo videns è del 1997) e la onnipresenza della gente sui social. La tv poteva (forse) addormentare le menti, i social hanno creato dal nulla un pubblico aggressivo, incolto, iper-suscettibile e non di rado frustrato: sono due fenomeni radicalmente diversi. Per non parlare dell’impatto dei social sulle ultime due generazioni (z e alpha), di cui solo ora ci si sta accorgendo».
Come mai solo ora?
«La ragione è semplice: da qualche anno, ai danni cognitivi si stanno aggiungendo quelli psichiatrici, molto meno occultabili. Finché nelle scuole e nelle università c’è solo un declino di preparazione, lo si può occultare o razionalizzare abbastanza facilmente, ma quando il problema diventa la salute mentale di un’intera generazione (la Anxious Generation del libro di Jonathan Haidt, appena uscito in America) non c’è artificio retorico che possa nascondere la realtà».
La politica con i suoi riti, le sue liturgie, le sue priorità d’altronde sembra lunare rispetto alla realtà. Si discute moltissimo di premierato e leggi elettorali: secondo lei le persone normali, l’italiano medio, non sentono lontanissimo il recinto delle grida del Palazzo?
«Sì e no. Gli argomenti (apparentemente) tecnici, come premierato, autonomia, legge elettorale, Pnrr interessano poco. Ma quelli sociali, identitari, culturali, come bassi salari, immigrazione, determinati diritti civili (aborto, eutanasia), non mi pare lascino indifferente l’opinione pubblica: semmai il problema è che i politici non li sanno trattare con passione e padronanza».
Armi di distrazione di massa, le battaglie populiste ora sui migranti che sbarcano, ora sull’ennesima inchiesta giudiziaria, utili per non parlare della coperta troppo corta che lascia scoperto il welfare? Non ci sono soldi per le pensioni, per la sanità, per gli asili, per la natalità e per combattere la povertà che sta ormai interessando sei milioni di italiani, il doppio di pochi anni fa…
«Mah, che la coperta del welfare sia troppo corta mi sembra sia chiaro a tutti. Quello di cui non pare esservi consapevolezza, specie nel modo della sinistra, è che il deficit di risorse pubbliche non è qualcosa cui si possa rimediare rapidamente, perché è il risultato di 60 anni di demagogia e scelleratezze finanziarie (la “Caporetto economica”, come ebbe a chiamarla Giorgio La Malfa, inizia nel 1964, ai tempi della “congiuntura”)».

Cosa serve, cosa può cambiare perché la politica torni interessante? Idee diverse, nuovi leader?
«Sì, occorrerebbero leader carismatici (al momento Meloni pare l’unica). E poi idee, più che idee nuove o diverse. Voglio dire che servirebbe abbandonare gli slogan, i luoghi comuni triti e ritriti in cui si crogiolano tanto la destra quanto la sinistra. Provare a svolgerle, le idee, in ragionamenti un po’ più lunghi e argomentati, senza insulti, senza parlarsi sopra, senza delegittimarsi continuamente. Un compito, occorre riconoscere, per cui servirebbero innanzitutto giornalisti e conduttori capaci di tenere alta l’attenzione senza ricorrere alle armi improprie della prevaricazione e dello scontro».
Lei qualche anno fa aveva scritto che “la sinistra è antipatica”. Lo pensa ancora? E il centrodestra è “simpatico”?
«La sinistra è tuttora antipatica, perché continua a pensarsi come depositaria del bene e a non riconoscere la legittimità delle idee altrui, come mostra il patetico, perdurante, tentativo di dipingere gli avversari come fascisti. Da quando esiste il Pd, solo Veltroni è stato capace di tenere a bada il “complesso dei migliori”. Quanto al centro-destra, non direi che è simpatico. Anzi non pochi suoi esponenti sono aggressivi, o noiosi, o indisponenti: la simpatia, a destra, è una esclusiva di Gorgia Meloni».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.