La riforma
Riforma Giustizia, giudici e pm ancora troppo uniti culturalmente. Gli studi, i pareri di corridoio, la mentalità: l’indipendenza si costruisce altrove
Il fronte compatto della magistratura contro la riforma della giustizia voluta dal governo Meloni è, a ben vedere, sproporzionato rispetto alla portata effettiva del testo. Si parla molto di “separazione delle carriere”, ma la riforma è in realtà un intervento moderato, più simbolico che sostanziale. Eppure, l’Associazione Nazionale Magistrati vi si oppone come se fosse una minaccia esistenziale. Le ragioni di questa reazione non sono tanto giuridiche quanto culturali e corporative.
I timori
Sul piano istituzionale, molti magistrati temono che la riforma, introducendo due Consigli superiori separati e nuovi criteri disciplinari, possa erodere l’autonomia dell’ordine giudiziario. Sul piano culturale, pesa la tradizione — radicata dal dopoguerra e rafforzata da Tangentopoli — che vede i magistrati come “custodi morali” della Repubblica, dei novelli seguaci di Catone il Censore, contrapposti al potere politico. Infine, sul piano corporativo, l’unità delle carriere garantisce mobilità, influenza e coesione interna: perderle significherebbe ridimensionare il potere del corpo. Ma il punto vero, che andrebbe davvero riformato, non è questo.
Giudice e Pm: culturalmente ancora uniti
Chiunque abbia frequentato i palazzi di giustizia sa che il problema non è la norma, ma la contiguità. Non esiste una vera equiparazione tra accusa e difesa. L’avvocato difensore, agli occhi dei giudici e dei GIP/GUP, resta un gradino più in basso del pubblico ministero. Quest’ultimo condivide con i giudici lo stesso edificio, spesso gli stessi corridoi e la stessa mentalità di “servizio allo Stato”. Hanno condiviso lo stesso percorso di formazione post-laurea, il concorso per entrare in Magistratura è, infatti, lo stesso; la scelta tra Magistrato requirente, giudicante o di sorveglianza, avverrà solo alla fine del corso, a seconda delle scelte personali e dei posti disponibili. L’avvocato difensore, invece, arriva dall’esterno: è “di parte” per definizione, quasi un intruso nel tempio della giustizia, viene spesso trattato con superiorità o diffidenza, perché è “quello che difende i criminali”. In teoria, il processo penale italiano è accusatorio. In pratica, conserva una forte impronta inquisitoria, perché accusa e giudizio restano ambientalmente e culturalmente uniti.
La necessità di separare le sedi
Ecco il nodo che nessuna riforma affronta: per spezzare davvero lo squilibrio servirebbe separare le sedi, i percorsi e le relazioni. Il risultato finale dovrebbe essere quello, mutuato dal sistema anglosassone, di avere “l’avvocato dell’accusa” e “l’avvocato della difesa” veramente pari agli occhi del giudice. I pubblici ministeri dovrebbero lavorare in edifici diversi, incontrare i giudici solo in aula, depositare gli atti come fanno gli avvocati — senza colloqui informali, senza passaggi diretti di carte, senza “pareri” di corridoio. Solo così il giudice tornerebbe a essere terzo non solo per legge, ma anche per percezione. Finché accusa e giudizio resteranno nello stesso spazio fisico e mentale, la separazione delle carriere sarà poco più di un atto di cosmetica istituzionale. La riforma del governo è blanda non perché non separi abbastanza le funzioni, ma perché non separa i luoghi, i riti e le relazioni che fondano l’identità del potere giudiziario. La vera indipendenza — e la vera parità tra accusa e difesa — non si scrive nei commi, ma si costruisce lontano dai corridoi.
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