Il lavoro meticoloso e intenso, frutto di un’antica passione, di un quasi ossessivo innamoramento, ha infine condotto Luigi La Rosa a scrivere una biografia sentimentale compiuta e accattivante di Vincenzo Bellini, genio musicale catanese che si formò al Conservatorio di Napoli (Nel furor delle tempeste, Piemme, pp.368). È difficile usare il linguaggio alfabetico per esprimere quello musicale, così indicibile, così ineffabile. Ciò che La Rosa ha realizzato in questo libro mi pare però proprio la restituzione di un ritratto del compositore che, nella lingua, nel giro di frase, nella scelta dei punti di osservazione delle vicende, predilige la composizione sinfonica e il pedale dell’emotività.

Caratteri precipui del romanticismo europeo e di quella peculiare declinazione di esso che si ebbe in Italia col melodramma di Donizetti e Bellini. Ed è così che seguiamo il racconto attraverso i segni prodigiosi che circondano il catanese fin dal suo battesimo che si consuma alla presenza di angeli folgoranti. Per giungere a delineare passo dopo passo, attraverso la storia della sua formazione e dei suoi debutti napoletani e della sua carriera folgorante tra Milano, Genova, Venezia, Londra e Parigi, una figura nobile, ultrasensibile, di un fascino fiabesco ben poco rassicurante, quello della bellezza normanna nata in Sicilia. La Rosa costruisce dunque tutto il mondo belliniano, a partire dalla famiglia a Catania, sino ai primi maestri, dal famoso amico e fondamentale consigliere, conosciuto appunto a Napoli al Real Conversatorio, Francesco Florimo, alle frequentazioni milanesi (interessante il ritratto di Mercadante, avvincente quello del grande poeta e librettista Felice Romani), dalle amanti possibili e impossibili alle interpreti mitiche dei suoi capolavori, Giuditta Pasta e la Malibran.

Suggestive le ricostruzioni della tensione e dell’attesa delle prime rappresentazioni di opere come Il Pirata, La Sonnambula, Norma, titoli che non sono mai tramontati. E ad ogni passaggio della vita di Bellini, Luigi La Rosa riesce immancabilmente a darci una chiave di lettura che vale insieme per la vita personale e la produzione artistica, d’altra parte essendo inscindibili le due dimensioni in un artista dalla statura totalizzante quale fu il cigno di Catania: si tratta di una chiave dove le note della nostalgia dolente e trattenuta, del pathos guerriero e sanguigno, della lunghezza dello sguardo/melodia si mescolano per consegnare la figura di un genio inafferrabile, di una specie di vendicatore angelico. Valga come assaggio questo brano quasi finale, prima delle pagine dedicate alla morte prematura che fece piangere tutta Europa: “Meditò, durante quei drammatici crolli, Sonno d’infanzia, una delle sue composizioni più struggenti, che era anche l’addio, l’estremo commiato al fantasma di Lena. Lo stese in lacrime, senza abbandonare il pianoforte per giorni, e declamandolo tra sé con un sospiro, mentre l’estate sfioriva sui crepuscoli e dal fiume soffiava una brezza fresca”. All’ultima pagina, ci sarà chiaro quanto si manifesta brano a brano sin dall’inizio: in questo ritratto belliniano, Luigi La Rosa ha riversato i suoi fantasmi, i suoi desideri, la sua fede nell’arte.