Trema la notte potrebbe essere il verso di un libretto d’opera, di quei declamati scolpiti dalla voce umana in una scena vuota e solitaria, recitativo pensoso che dà avvio alle arie dei protagonisti quando “la notte nella città smarginata poteva somigliare a un giaciglio”. Questo ho pensato leggendo l’ultima frase del nuovo romanzo di Nadia Terranova (Einaudi Stile Libero, pp.166, euro 16,50), ambientato a partire dalla sera del 27 dicembre 1908, giorno in cui il terremoto sconvolse lo Stretto di Messina, devastando le due città che si specchiano l’una nell’altra, Messina appunto, e Reggio di Calabria, e dove il racconto si spinge sino ai primi mesi successivi alla sciagura.

Racconto scandito dagli Arcani Maggiori dei Tarocchi che, come voci potenti e indistinte, evocano figure e significati viaggianti nella notte e sul mare dello Stretto, unico e incantatore. Esso intreccia le storie di Barbara, che desidera affrancarsi da un padre che non la capisce e dalla vita di provincia, per mezzo dei romanzi, del desiderio di università, delle fughe insistite verso la città di Messina; e le storie – perché sono tante, prima e dopo il terremoto – di Nicola. Barbara e Nicola otterranno dalla devastazione il frutto della rinascita, del ritrovamento, della speranza inconscia. L’una troverà la presenza salvifica di sorelle/amiche e porterà vita. L’altro verrà adottato da veri genitori che prendono il posto di quelli, terrificanti e oppressori, lasciati sotto le macerie. La Terranova, con la sua scrittura nutrita di uno sguardo che vuole scandire tutti i silenzi degli accadimenti interiori più sinceri e inaspettati mentre fuori furoreggia il fragore del terremoto e del maremoto, svolge così una meditazione essenziale, un recitativo dei sopravvissuti che riprendono a vivere sopra i morti, mentre i morti non se ne vanno mai davvero, restano nei tremori delle notti e riposano quando le storie trovano una voce dall’accento esatto.

All’inizio della storia di Barbara significativamente compare una rappresentazione teatrale: la protagonista e sua nonna vanno a vedere Aida, e Barbara, insofferente allo schema del racconto, prima parteggia per Amneris, poi per nessuno, perché semplicemente vorrebbe che, disciolti i trucchi di scena e consumate le finzioni, possa infine comparire la vita dietro la rappresentazione. E in quella stessa notte giungerà il terremoto a portare sulla scena la vita. Cioè la morte, gli stupri, la sete, i bambini orfani, la bramosia, la solidarietà, i bei gesti di vuota filantropia, gli incontri densi nelle baracche tra chiese, conventi e porti, luoghi pubblici trasfigurati dalla necessità: “quando non si sa dove andare, si torna sempre a casa. Se la casa non c’è più, si torna lo stesso”. Da tutto quanto abbiamo fin qui detto non si potrà non cogliere la portata profetica di questo romanzo. E con uno degli Arcani (la Giustizia) che più mi hanno colpito – anche per il mio lavoro, ça va sans dire – diremo, di questo tarocco/racconto, che “è la bilancia che indica l’equilibrio – ordine, salute, armonia e giustizia – ed è la spada che indica il potere di ristabilirlo ogni volta che la volontà individuale pecca contro la volontà universale”.