Ci sono partiti personali e persone-partito. De Magistris è tra queste, ma guai a sottovalutarlo. È sopravvissuto a Di Pietro che lo candidò alle europee dieci anni fa. Ha vinto su Renzi che voleva farlo a pezzi, riuscendo a farsi rieleggere sindaco a Napoli. Ora tiene botta a De Luca, e ce ne vuole. E l’altro giorno ha evitato l’ennesima sfiducia in Consiglio comunale pur non avendo più una sua maggioranza. Come si spiega tanto galleggiamento a fronte di una carriera di magistrato e di politico per molti versi rovinosa? Quando si parla di de Magistris è inutile girarci intorno: il tema vero è questo. A differenza di Leonardo Di Caprio in Prova a prendermi di Spielberg, deve ancora trovare il suo Tom Hanks capace di bloccarne la corsa. Europarlamentare lo è diventato quando ha dovuto buttare via la toga, per evitare che il Csm lo cacciasse dalla magistratura per come aveva accusato Mastella e indagato Prodi senza peraltro che mai nulla venisse poi provato. E in quel caso avvalorò la tesi secondo cui un magistrato non diventa di parte perché si candida, ma perché è già diventato di parte nell’esercizio delle sue funzioni.

Ora, invece, pur non avendo più i numeri, può continuare a fare il sindaco grazie a una fitta rete di veti incrociati nella quale sono rimasti impigliati un po’ tutti: dai pentastellati agli stessi deluchiani. In questo caso confermando che in quanto a sugherismo – l’arte di rimanere a galla – è ormai diventato un professionista. Il fatto è che nell’uomo convivono moltitudini. Per cui, proprio quando sembrava ad un passo dal capolinea, in una città stremata dalla sua amministrazione, con i servizi in panne, la cassa vuota, il patrimonio ingestito e i debiti alle stelle, eccolo riemergere di colpo. Per fare cosa? Quello che gli riesce meglio: fiutare la rissa, buttarsi a capofitto, come ha fatto col caso Di Matteo e le intercettazioni di Palamara; e alzare polveroni creando suggestive relazioni con ciò che gli è successo nella vita precedente, quella di pm. In sostanza, lasciando intendere che se c’è una giustizia assoluta, lui ne è ancora l’espressione, mentre lo Stato è solo il riflesso di una discutibile legalità. Quando si definisce “ribelle” è a questo che allude: al primato della Giustizia sulla Legalità. Che poi è un modo per fare sempre come gli pare. Ora sta puntando tutto sul grande complotto: naturalmente dello Stato ai suoi danni. E si sente come un’Antigone vittima di due Creonte.

La mette così: «Mi hanno fatto fuori (da magistrato), perché fino a quando indagavo su Berlusconi mi facevano l’applauso; come cominciai a indagare a sinistra mi fecero: ma che fai, indaghi anche a sinistra?». E via con i nomi: Nicola Mancino, ex presidente, del Csm, e Giorgio Napolitano, al Quirinale all’epoca dei fatti. Cioè al tempo di “Toghe lucane” e di “Why not”, le inchieste che, a partire dalla Calabria più profonda, dove de Magistris faceva appunto il pm, avrebbero dovuto trasformare l’Italia da così a così, liberandola da massonerie deviate e oscure trame politico-affaristiche. Ma davvero era il pm che racconta? Una buona risposta porta la firma di una sua vittima: Agazio Loiero. Assolto per “Why not” in primo grado, condannato in appello, definitivamente assolto in Cassazione, il due volte ministro ed ex governatore calabrese, una volta ripresosi dalla botta giudiziaria, lo ha dipinto così in un libro di qualche anno fa. «Quasi tutte le sue inchieste non hanno avuto successo. Toghe lucane: 30 indagati, 30 proscioglimenti». E il mitico esordio come pm, quando perse contro un morto? Il perfido Loiero ricorda bene. I figli di Antonio Lo Torto, deceduto dopo essere stato rinviato a giudizio, pur di riscattare l’immagine del padre affrontarono l’udienza preliminare. E qui il Gup prosciolse (alla memoria) il de cuius. Il libro si chiude con la frase con cui Grillo, dopo averlo sostenuto come parlamentare europeo, lo liquida di brutto: «Di errori ne ho commessi molti, ma uno dei più imbarazzanti è stato Luigi de Magistris». Era successo che, di fronte a una querela di Mastella, l’euroeletto aveva invocato – proprio lui – l’immunità parlamentare. Solo l’inizio di una lunga catena di contraddizioni: non ultima quella tra un abito mentale da giustizialista manettaro e una vocazione festaiola, da mojito salviniano.

De Magistris era questo ed è di questo, al netto delle critiche, che ha nostalgia. Tanto più ora che non può ricandidarsi a sindaco o tornare a indossare la toga; che ignora quale sarà la sua prossima dimensione, se alla Regione o altrove; e che tra lui e il Pd non si sa chi è il gatto e chi la volpe, ma che di sicuro, direbbe Bennato, si sono messi in società: almeno per eleggere Sandro Ruotolo alle suppletive per il Senato e poi chissà, magari per ridimensionare l’onnipotente De Luca. A proposito. Il sindaco se n’è stato buono buono per tutta la prima parte della quarantena nazionale, e a differenza dei colleghi che andavano con la fascia tricolore per strada a raccomandare il distanziamento fisico, ha preferito concedere tutta la scena al governatore regionale; e con la scena, neanche a dirlo, anche il lavoro sporco, i divieti, le minacce di intervenire col bazooka e gli insulti ai cinghialoni beccati in strada in tenuta da jogging. Poi, però, passato il peggio, è venuto fuori come in crisi di astinenza: gli mancava la visibilità perduta. Ed è stato un crescendo: ospite di Mara Venier, poi di Giletti, poi ancora di Giletti. Proprio come ai bei tempi, quando Santoro e Ruotolo se lo portavano dietro da una trasmissione all’altra per polemizzare ora con Mastella ora con Briatore. Era un duellante. Un Don Chisciotte della moralità pubblica. E a Napoli divenne un Masaniello con la bandana, dimostrando che l’esercizio televisivo può aiutare a modellare il personaggio che è in te.

È stata proprio questa aura “ribelle”, unita a una forte carica “dadaista”, cioè irrazionale, istintiva, contemplativa, ma anche gratuita e arbitraria, che gli ha fatto vincere due volte le elezioni a Napoli. Chi lo ha votato sapeva bene che era un’altra cosa rispetto ai sindaci di prima, Antonio Bassolino e Rosa Russo Iervolino. Ma è lecito credere che dopo decenni di emergenze, dal colera alla crisi dei rifiuti passando per il terremoto e le continue faide di camorra, la città disillusa volesse piuttosto un agitatore politico. Qualcuno capace fare lo sgambetto alle solite gerarchie politiche e all’intero sistema di potere della sinistra storica. Napoli aveva voglia di buttare tutto all’aria e de Magistris è capitato a fagiolo. E ora? Ora gli umori della città sono cambiati, i tempi sono tornati a incupirsi e il modello di una città tutta ricreazione e commercio, ora che i turisti latitano, non regge più. Ma il sindaco punta sui giovani che vogliono uscire dal Panopticon deluchiano. E se gli altri tardano a “ripensare” Napoli, lui è lì, pronto per le prossime elezioni regionali. E per un altro copione.