“È tutto quello che ho da dire”. Mai era stato liquidato in questo modo, neanche il giorno in cui ha perso il processo della sua vita, la “Trattativa”, e poco dopo è andato in pensione da sconfitto, il procuratore Roberto Scarpinato. C’è voluta la fierezza di una giovane donna, da lui trattata come un’imputata, come l’erede non solo del fascismo, ma anche di tutte le stragi, comprese quelle di mafia, nella solennità dell’aula di Palazzo Madama, per mettere al suo posto il neo-senatore.

Giorgia Meloni, il (la) Presidente del Consiglio, aveva risposto con un certo garbo, sia alla Camera che al Senato, a ogni critica dei rappresentati dell’opposizione. Aveva replicato con sicurezza ma sempre mantenendo un tono rispettoso su ogni argomento, anche i più spinosi. Ma un’unica volta la sua voce si è fatta ispida e gli occhi hanno fiammeggiato. Ed è parso strano questo singolare trattamento nei confronti di una ex toga, da parte dell’esponente di un partito, Fratelli d’Italia, e di una storia, quella della destra italiana discendente dal Msi, che si è sempre posta al fianco delle forze dell’ordine e della magistratura. E questo nonostante i morti e i processi che in determinati anni hanno riguardato la destra tanto quanto la sinistra.

Ma Scarpinato l’ha fatta grossa. Ha costruito il solito teorema, forse pensando di essere ancora ai tempi dei fasti dell’antimafia. Le prove generali erano già andate in scena, ancor prima delle elezioni del 25 settembre. Ma forse Giorgia Meloni non l’aveva notato. C’era stata una domenica pomeriggio in cui l’ex procuratore era stato esibito come la ciliegina sulla torta a Cinque stelle da Giuseppe Conte in una trasmissione elettorale negli studi Rai di Lucia Annunziata. Era stato quel giorno che il vestito della militanza antifascista aveva preso il posto di quella antimafia. Se qualcuno aspettava da lui un forte programma di riforme sulla giustizia, la speranza è stata subito spenta. Il candidato del partito grillino aveva il problema di dimostrare il sangue neo-fascista ancora vivo nelle vene di Giorgia Meloni e di tutto il centro-destra, perché al Senato era stato presentato un libro storico che raccontava la vita del generale Maletti. Cioè di un uomo del Sid degli anni sessanta-settanta, morto centenario un anno fa a Johannesburg e condannato per favoreggiamento nel processo per la strage di Piazza Fontana. Preistoria.

Ma usata in campagna elettorale come antipasto della bomba che il senatore Scarpinato ha deciso di tirare (un po’ con la mano sinistra, visto lo scarso successo) al suo esordio da senatore. Perché si è così inferocita Giorgia Meloni? Perché Scarpinato ha cercato di buttare lei e tutta la coalizione che ha vinto le elezioni, fuori dall’ “Arco Costituzionale”. Era questa la denominazione con cui fino al 1994 e l’arrivo di Silvio Berlusconi, il Msi era sempre schiacciato fuori dal mondo civile. Quello in cui chi governava, la Dc e i partiti laici e riformisti, aveva sempre tenuto aperto il dialogo e spesso la complicità con il Pci, il più grande partito comunista d’Europa, ma mai con il partito che rappresentava la destra. I missini erano i paria e dovevano stare nascosti come la polvere sotto il tappeto. I comunisti erano i cugini spesso invitati a tavola con i padroni di casa. Scarpinato ha detto a Meloni che lei era seduta indegnamente sullo scranno più alto del governo perché era brutta sporca e cattiva. Come i suoi antenati, ma anche come i protagonisti della “strategia della tensione”, secondo un copione dell’antifascismo militante e complottardo degli anni settanta cui non crede più neppure qualche nostalgico stalinista del mondo che fu.

“Signora presidente del consiglio”, ha esordito l’ex procuratore, e mai il richiamo all’appartenenza al genere femminile del(la) Premier è parso stonato. Perché la bomba è stata sganciata subito. Lei ha giurato sulla Costituzione, le ha buttato lì, ma “molti indici inducono a dubitare che tale giuramento sia stato sorretto da una convinta condivisione dei valori della Costituzione”. L’ex procuratore tratta Giorgia Meloni come aveva già fatto con Mario Mori nel “processo Trattativa”: due traditori dello Stato, alleati di coloro che intendono sabotare la Costituzione. “O peggio -aggiunge oggi- di stravolgerla instaurando una repubblica presidenziale..”. Non basta prendere le distanze dal fascismo, le dice. Non basta mai, si sa. Perché i furori dell’inquisizione prescindono da qualsiasi ragionamento. Lo abbiamo già visto. Diversamente non si sarebbe andati da “Sistemi criminali”, passando per il “papello” di Totò Riina fino al “Processo Trattativa”. E i carabinieri eroici che lottarono contro Cosa Nostra trattati come criminali. E trent’anni di processi costosi quanto fallimentari, fino alla sconfitta finale con l’assoluzione di tutti gli imputati.

Così oggi, passando dalle aule giudiziarie a quella del Senato della repubblica, alla storia di chi ha vinto le elezioni vengono imputati come “figure di riferimento, alcuni protagonisti del neofascismo”. Riecco ancora il generale Maletti, cui viene aggiunto Pino Rauti, il fondatore di Ordine Nuovo il cui nome ormai per i più può solo ricordare il fatto che la figlia Isabella è un’esponente di rilievo di Fratelli D’Italia. E non è una neo-fascista né una terrorista delle stragi. Salti logici cui abbiamo assistito nelle aule di giustizia siciliane. Il principio è sempre quello della favoletta del lupo e l’agnello. “Non basta la sua presa di distanza dal fascismo storico”, cara Meloni, dice Scarpinato. Perché il fascismo è proseguito per via “occulta” con le stragi, e quindi, finché non ci sarà la verità su quelle, lei non è degna di governare. Poi, sempre nella logica del “se non sei stato tu a sporcarmi l’acqua sarà stato qualche tuo parente”, si chiama in causa il progetto di Repubblica presidenziale e del pericolo autoritario insito nella proposta. Vogliamo aggiungere un altro pizzico di sale dell’antifascismo militante d’un tempo? Eccolo: la “bibbia liberista” che avrebbe sostituito i valori costituzionali, insieme ai biechi “interessi del padronato”.

Eccoti servita, cara Meloni. Da parte di un ex magistrato che, nei giorni in cui aveva appena ricevuto la candidatura già strillava compiaciuto “ditemi voi se me ne potevo restare a casa”. Ma che già nel passato, a proposito di valori democratici, andava sostenendo che “bisogna sospendere autoritativamente la democrazia elettiva aritmetica al fine di salvare la democrazia sostanziale”. Lo diceva senza timore che le proprie parole potessero un po’ puzzare di eversione. Che è un po’ quello di cui lui è abituato a contestare agli altri. Si è messo sullo scranno del pubblico ministero, forte di quella che un tempo fu l’intangibilità del ruolo, e ha cercato di mettere Giorgia Meloni sul banco degli imputati. Del resto si è sempre vantato, quasi un programma elettorale, di aver inquisito i potenti e i Presidenti del consiglio. Ma non ha mai spiegato ai suoi ammiratori come sono andati a finire quei processi e quelle indagini, a partire dal processo Andreotti fino alle inchieste archiviate su Berlusconi.

Con Giorgia Meloni gli è andata male. anche perché è impossibile mettere fuori dall’”arco costituzionale” un(a) presidente del consiglio. Così lei è andata a muso duro, ed è stata l’unica volta nei due giorni del dibattito sulla fiducia al governo. “Un approccio così smaccatamente ideologico –ha sillabato- mi stupisce fino a un certo punto, perché l’effetto transfert che lei ha fatto tra neofascismo, stragi e sostenitori del presidenzialismo, è emblematico del teorema di una parte della magistratura che è partito dal depistaggio e dal primo giudizio sulla strage di via D’Amelio. È tutto quello che ho da dire”. Ha fatto benissimo a ricordare la vergogna della vicenda Scarantino, anche se ha riguardato più Di Matteo che Scarpinato. La prossima volta basterà aggiungere la parola “trattativa”.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.