La questione dei bassi salari italiani rischia di diventare un porto delle nebbie se viene affrontata con slogan propagandistici. Mi sia consentito, allora, ricordare qualche dato. È vero: siamo il paese dell’area Ocse in cui le retribuzioni dei lavoratori hanno perso maggiore potere d’acquisto rispetto all’inflazione. Attenzione, però. Non è così per tutti. Ci sono retribuzioni che sono cresciute, tenendo più o meno il passo con il caro vita. E altre che sono rimaste ferme, svuotando così le tasche dei loro percettori. Molto dipende, infatti, dal settore in cui si lavora.

Quando si parla di salari bassi occorre quindi distinguere: si tratta dei salari dei servizi e del pubblico impiego, e non dei salari dell’industria. Dal 2001 essi sono aumentati del 75% nell’industria, mentre nella Pubblica amministrazione e nei servizi solo del 45%. Si pensi agli insegnanti. Secondo l’ultimo Rapporto Eurydice, la retribuzione annuale lorda di un docente italiano è di circa 24mila euro, contro i 28mila dei francesi e i 54mila dei tedeschi. I bassi salari italiani sono pertanto legati soprattutto alla crescita di servizi poco qualificati e alla dinamica stagnante degli stipendi nel settore pubblico, che abbassano drasticamente la media.

Secondo l’Osservatorio JobPricing, a fronte di una media nazionale di 30.838 euro del Ral (Retribuzione annua lorda), le buste paga più pesanti sono quelle degli addetti dei servizi finanziari (45.906 euro), seguite da quelle delle utility (con 33.459 euro), dell’industria di processo (32.259) e dell’industria manifatturiera (31.475). Sotto la media: i servizi (29.564), il commercio (29.926), l’edilizia (27.896) e l’agricoltura (25.198 euro). Insomma, molto dipende anche dalla “ricchezza” del settore. Il metalmeccanico e il chimico sono settori ad alta intensità di capitale, con margini maggiori, nei quali il costo del lavoro ha un peso minore, per cui possono permettersi di seguire l’inflazione. Nei servizi, invece, si trova la parte più fragile del tessuto produttivo italiano, che non riesce a compensare gli aumenti del costo del lavoro con aumenti della produttività.

Ora, quante volte sentiamo che l’aumento dei salari è legato all’aumento della produttività? Il problema è che la terziarizzazione dell’economia italiana è avvenuta soprattutto con servizi poco qualificati e quindi poco pagati. Di qui la media in discesa. Un fattore determinante della bassa produttività italiana, poi, è la dimensione più piccola delle nostre imprese. Che poi sono quelle che fanno scarsi investimenti in tecnologia e ricerca e sviluppo, sottoscrivono raramente contratti aziendali migliorativi e hanno bassi salari. Tra una micro-impresa, con meno di 10 dipendenti, e una grande, con più di 1.000 dipendenti, c’è una differenza di oltre 10mila euro all’anno del Ral.

Inoltre i bassi salari riducono pure i consumi interni, determinando una crescita bassa. E anche l’Ocse sottolinea che la produttività stagnante è la principale palla al piede dell’economia italiana (Employment Outlook, 2024). E un paese che non cresce crea, ovviamente, lavoro di minore qualità e salari più bassi. È il classico caso del cane che si morde la coda. Chi scrive non ha soluzioni in tasca, né a lui gli competono. Ma senza farsi le domande giuste è difficile dare risposte corrette.