Dai tagli agli sprechi
Sanità, giustizia, PA, formazione e infrastrutture: le cinque riforme da fare subito
Sulla sostituzione del governo Berlusconi con il governo Monti, nell’autunno del 2011, qualcuno ha parlato di complotto. Dai dati presentati nel Documento di economia e finanza (Def) del 2011 del governo Berlusconi-Tremonti, però, si può trarre una valutazione più articolata. Infatti, dalla non credibilità di quei dati (seguiti da due raffazzonati decreti correttivi, da una nota di aggiornamento Def e dalla legge di stabilità 2012, sempre con dati non credibili) si può trarre la netta sensazione che, più che di complotto di autunno, si può parlare di un harakiri di primavera. O meglio, di “idi di aprile” con un Giunio Marco Bruto interno al cerchio di Giulio Cesare. In ogni caso, il novembre 2011 fu di fatto l’epilogo di un decennio di governi di centro-destra guidati da Silvio Berlusconi, con esclusione dei soli due anni di governo Prodi. Gli elementi politici e numerici che segnarono quell’epilogo appaiono però anche nel prologo di dieci anni prima. L’11 giugno 2001 si formò il nuovo governo di centrodestra con un programma condiviso di importanti riforme di ispirazione liberale. Il governo Amato-Visco-Del Turco aveva definito, nel suo ultimo Dpef, linee e numeri per il successivo triennio.
Si decise allora di effettuare una due diligence affidandola al viceministro dell’Economia con il contributo essenziale della Ragioneria generale dello Stato e degli esperti di Banca d’Italia. Emerse subito che, nel 2001, il deficit pubblico sarebbe stato al 3,5% del prodotto interno lordo (pil), contro l’1% indicato dal governo Amato. Pertanto, al fine del mantenimento degli impegni verso gli elettori, risultava «onesto e necessario» prendere atto del maggiore deficit ereditato dal precedente governo; confermare un percorso di rientro dal deficit per gli anni successivi, riducendolo dello 0,5% all’anno, come indicato dal precedente governo; prendere però anche atto del fatto che, partendo da oltre il 3% di deficit del 2001, l’obiettivo di azzeramento dello stesso deficit non poteva essere posto al 2003. Qualora invece si fosse confermato quel brevissimo percorso di azzeramento del deficit, il governo Berlusconi non avrebbe più potuto attuare la sua politica economica volta a sostenere la crescita e l’occupazione. Su questo punto dirimente si aprì un serrato confronto, assolutamente riservato. All’alba, il compromesso fu che il ministro avrebbe definito i dati di finanza pubblica secondo le sue indicazioni confermando l’azzeramento del deficit nei tempi indicati dal precedente governo Amato e il viceministro avrebbe scritto il testo del Dpef secondo le sue convinzioni.
Ecco perché il Documento di programmazione economico-finanziaria (Dpef) per il 2002-2006 appare ancora oggi “strabico”: da una parte, gli andamenti dell’economia con un balzo della crescita e dell’occupazione che sarebbe stato conseguenza dei tagli di spesa, tagli di tasse e rilancio di investimenti secondo le linee sostenute dal viceministro; dall’altra parte, i quadri di finanza pubblica che confermavano l’azzeramento del deficit nel 2003 ma che, proprio per questo, erano del tutto incompatibili con i profili di crescita e di occupazione indicati nello stesso documento. I dati consuntivi “veri e storici” dicono che il deficit 2001 è stato pari al 3,4% e ha proseguito su tali livelli in tutti gli anni successivi. Pertanto non si è fatto né azzeramento del deficit né rilancio della crescita. Di questa evidente dicotomia non si accorse neanche l’allora opposizione. Non credo proprio che ciò sia avvenuto per una semplice ragione di “non comprensione”. L’argomento dei tagli di sprechi di spesa pubblica (malversazioni, ruberie, in sintesi corruzione) associato al fenomeno dell’evasione fiscale è ben presente a tutti. Di fatto, però, la protezione di interessi consolidati di un quattro-cinque di milioni di italiani che sguazzano con quelle risorse è talmente forte e trasversale che risulta ben più potente rispetto agli interessi legittimi e ai bisogni economici e sociali degli altri 55 milioni di italiani che lavorano, pagano le tasse e, spesso, non sanno bene come arrivare a fine mese.
Ecco perché ho voluto premettere a questa analisi il prologo del governo di centrodestra del 2001 e l’epilogo del 2011. Questo nodo era ben presente nel 2001 e altrettanto presente negli anni successivi, nell’epilogo del 2011 e nei sei governi che sin d’allora si sono susseguiti fino all’attuale governo M5S-Pd. Nel frattempo sono passati venti anni. E allora dobbiamo chiederci quanto è stato il costo delle mancate riforme strutturali in termini di minore reddito, minore occupazione, rischiosi equilibri di bilancio pubblico ottenuti con aumenti di tasse e tagli di investimenti.
Le risorse disperse in corruzione ed evasione e il costo delle mancate riforme
Il Centro Studi Economia Reale ha allora stimato quale sarebbe stato l’andamento dell’economia italiana dal 2002 in poi qualora si fosse ristrutturato il bilancio pubblico secondo quanto indicato in premessa. I mancati tagli di sprechi di spesa pubblica con risorse destinate a ridurre la pressione fiscale e aumentare gli investimenti hanno ridotto il nostro pil del 14%, circa 240 miliardi, mentre la mancata redistribuzione di carico fiscale tra evasori e tartassati ci ha fatto perdere un altro 8% di pil, quasi 150 miliardi. Il pil reale pro-capite italiano nel 2019 sarebbe stato superiore a quello del 2000 di circa il 22%. In realtà, dopo venti anni di crescita zero, è tutt’oggi inferiore e quest’anno, con un taglio ulteriore tra 10 e il 12% dovuto al coronavirus, torneremo indietro a trenta anni fa. Con la mancata crescita, il debito pubblico è passato da 1.300 a 2.350 miliardi, dal 109 al 137% del pil. Quest’anno sarà oltre il 160%. Numeri e analisi mostrano quindi che questo ventennio di stagnazione e crisi pre-coronavirus è stato “costruito” interamente con le nostre mani a seguito delle mancate riforme strutturali.
La madre di tutte le riforme e le cinque riforme strutturali da fare
Con i fondi europei all’Italia potrebbero arrivare circa 250 miliardi: 80 da Mes, Bei e Fondo Disoccupazione e 170 dal Recovery Fund, circa 100 dei quali a fondo perduto. Con i tre noti decreti, l’Italia ha messo in campo un totale di circa 80 miliardi, un terzo dei fondi che potranno arrivare dall’Europa, oltre agli acquisti Bce dei nostri titoli di Stato. L’Italia, però, potrà avere le risorse europee solo a fronte di riforme strutturali. Fare le riforme non significa convocare stati generali e scrivere la “lista della spesa”. Significa invece scegliere cinque temi, fare cinque progetti, presentarli al Parlamento e approvarli in tempi rapidi. La premessa a tutte le riforme è una profonda ristrutturazione del bilancio pubblico, delle spese e delle entrate. Tagli agli sprechi, malversazioni, ruberie, agevolazione fiscali corporative e a pioggia e lotta all’evasione dovranno fornire le risorse per una riforma fiscale strutturale che sgravi famiglie e imprese per almeno 60 miliardi di euro. Qui quasi tutti parlano genericamente di abbassamento delle tasse lanciando slogan e proposte strampalate. Al contrario, abbassare le tasse significa: fare una riforma strutturale, permanente e complessiva con in testa l’Irpef per lavoratori e famiglie e l’Irap/cuneo fiscale per le imprese; se deve essere strutturale e permanente, il minor gettito non può essere coperto con maggiore deficit e debito né, tantomeno, con i fondi europei.
Ne consegue che qualunque riforma fiscale deve essere finanziata con risorse ricavate all’interno del bilancio pubblico. Il coraggio, cioè, non sta nel tagliare le tasse ma nel reperire le risorse. I dati dell’Agenzia delle Entrate del 2018 dimostrano che l’attuale Irpef è regressiva, pagano di più i redditi medio-bassi e di meno i redditi alti. Se introducessimo una riforma Irpef a tre aliquote (20% da 20 a 50mila euro, 30% tra 50 e 100mila euro e 43% sopra i 100mila euro), si avrebbe un abbassamento delle tasse di circa 40 miliardi di euro. Questi sgravi andrebbero per l’80% ai redditi medio-bassi. Questa Irpef sarebbe pertanto progressiva e rispetterebbe il dettato costituzionale. Per la copertura finanziaria basterebbe tagliare 40 miliardi, la metà delle attuali tax expenditure a pioggia. Alla riforma Irpef si deve affiancare l’azzeramento dell’Irap e/o la riduzione del cuneo fiscale-contributivo per le imprese per 20 miliardi, compensandoli con una pari riduzione degli oltre 50 miliardi di fondi perduti che ogni anno, da oltre trent’anni, eroghiamo a pioggia.
Avremmo così una riforma fiscale strutturale, credibile e semplice. Ciò che non è affatto semplice è trovare il consenso politico, sempre bloccato finora dalle mille corporazioni, congreghe e lobbies trasversali che da decenni sguazzano su quegli sprechi di spesa, sulle piogge di agevolazioni fiscali e su elusione ed evasione. Poi si affiancano cinque riforme strutturali: sanità (più medici, più infermieri, più presidi territoriali con tutti i medici di base messi in rete e meno ruberie negli acquisti e nelle forniture), giustizia civile e penale (riforma del Consiglio superiore della magistratura e separazione delle carriere), pubblica amministrazione (autocertificazioni e silenzio-assenso in tempi brevi e automatici), scuola-università (messa a norma di tutti gli edifici scolastici, assunzioni e carriere per meriti verificabili sul campo), piano per il riassetto idrogeologico, riconversione ambientale e infrastrutture (ferroviarie, stradali, portuali, aereoportuali per fare dell’Italia intera la vera piattaforma naturale al centro del mediterraneo). Su ciascuna riforma si devono mettere 10 miliardi all’anno per cinque anni. Il totale delle cinque riforme sarebbe quindi tutto finanziabile con i fondi europei, senza alcun ricorso al mercato. Con questo avremmo una ripresa strutturale della crescita al 3%, occupazione in aumento e disoccupazione in forte riduzione, conti pubblici in ordine e debito sostenibile. Senza questo, continueremo a stare sotto la spada di Damocle di un terribile autunno 2020.
© Riproduzione riservata