Nell’antica cultura contadina c’era una regola che si tramandava da una generazione all’altra: in caso di catastrofe, prima del raccolto, si devono mettere in salvo le sementi, perché sono loro a garantire che ci sarà un futuro e che la vita potrà rinascere. Con questa consapevolezza Alcide Cervi riuscì a sopravvivere e a custodire la memoria dei sette figli fucilati dai nazi-fascisti.

Anche noi, in quest’ora gravissima, abbiamo il dovere di salvare le nostre sementi: le strutture produttive, le fabbriche, le aziende. Non c’è un prima e un dopo; in questi frangenti non vale il principio, un po’ opportunista, del primum vivere deinde philosophari. La pandemia virale deve evitare, nella misura del possibile, l’esplodere di una pandemia economica. Ecco perché considero giusta la linea fino a ora seguita dal governo: procedere lungo un’escalation di misure di prevenzione che non paralizzino l’intero Paese. Non è dimostrata né sostenibile (pertanto è vana) la speranza che un intervento di chiusura totale di ogni attività possa affrettare la conclusione dell’emergenza.

È in coerenza con una linea di gradualità che il governo non ha accolto le richieste – provenienti dalle Regioni più in difficoltà – di decretare anche la chiusura delle imprese. Certo, la sfida è difficile, perché le misure da adottare nei reparti per la sicurezza dei lavoratori non hanno precedenti a cui risalire, almeno di tale estensione e diffusione del contagio. Ma se e quando finirà questa pandemia, non possiamo trovarci in un deserto. La ripresa ci sarà soltanto se – restando nella metafora – saremo riusciti a “salvare le sementi”. I nostri nonni e i nostri padri difesero le fabbriche con le armi, quando i nazisti volevano smontarle e trasferirle in Germania. Durante la battaglia di Inghilterra, le fabbriche continuarono a lavorare sotto le bombe. Poi, parliamoci chiaro: è possibile un blocco totale?

Se la popolazione deve continuare a nutrirsi va salvaguardata la filiera agro-alimentare: dal campo, all’industria di trasformazione, ai mercati generali, fino ai punti vendita. I prodotti non viaggiano sui droni. Anche il sistema dei trasporti deve funzionare. Lo stesso dicasi per le forniture di energia (luce, gas, benzina, ecc.) e per gli uffici pubblici. Le ultime misure del governo hanno giustamente tenuto conto di queste esigenze, ivi comprese quelle del credito e dei mercati assicurativi e finanziari. Il governo ha allargato i cordoni della borsa, salendo nel giro di una settimana da uno stanziamento di 3,6 miliardi a 25 miliardi, senza tener conto (con il consenso della Ue) delle regole di bilancio e del livello del deficit.

L’impiego di queste risorse dovrà rafforzare la trincea avanzata della sanità, tutelare i lavoratori attraverso nuovi e più estesi ammortizzatori sociali, consentire una pausa negli adempimenti fiscali da parte delle imprese e dei cittadini e quant’altro. Tutto bene. Attenzione, però: non possiamo permetterci di cercare la salvezza stando tutti seduti sul divano. Non si deve disarmare né per due settimane né mai. Sarebbe come bruciarsi i vascelli alle spalle. Quello, pur fondamentale, alla salute non può trasformarsi in un ‘’diritto tiranno’’, in nome del quale tutti gli altri diritti sociali e di libertà possono essere sacrificati. Non lo pensa e non lo dice solo chi scrive; si tratta di un principio solenne recentemente ribadito dalla Presidente della Consulta Marta Cartabia.

La Corte ha affermato che «il diritto assoluto diventa un tiranno» e che pertanto occorre «tenere unito ciò che apparentemente non poteva trovare un contemperamento, la tutela della salute, dell’ambiente, ma anche il diritto al lavoro e i diritti economici dell’impresa. Istanze tutte buone ma che, se affermate in modo assoluto, rompono il tessuto sociale, e la necessità di bilanciare».

In sostanza, le risorse non devono servire all’istituzione di un nuovo RdC (dove la lettera C sta per contagio), non possiamo rassegnarci a rilasciare ai cittadini una tessera annonaria da utilizzare, se e quando i rifornimenti di generi alimentari cominceranno a scarseggiare (magari anche a causa di approvvigionamenti eccessivi da parte di taluni consumatori), tanto da consentire un florido mercato nero delle banane al pari di quello delle mascherine. Il nostro Paese ha compiuto un percorso che può essere utile ad altri; soprattutto perché – a differenza della Cina – ci siamo mossi con trasparenza anche a costo di essere considerati gli untori del ‘“virus venuto dal freddo’’.

Guai, però, a essere faciloni, a pensare che ci siano delle scorciatoie per uscire dal labirinto. L’apparato produttivo del Paese non può cavarsela grazie a una liquidità usata come assistenza, come reddito di sopravvivenza. Deve continuare a ‘’far girare’’ le macchine negli opifici. Ricordiamoci: prima di tutto le sementi.