Incalzati dalla pandemia, abbiamo imparato a familiarizzare con il concetto di Smart Working, una forma di lavoro “agile”, “intelligente”, che stravolge le modalità di esecuzione storicamente legate al lavoro subordinato, sganciandolo dai tradizionali vincoli spazio-temporali. Un accordo stipulato tra lavoratore dipendente e datore di lavoro garantisce al primo flessibilità e autonomia dei tempi e dei luoghi di produzione, a vantaggio di un riequilibrio orario tra tempo lavorativo e tempo libero, al secondo la possibilità di ottenere un aumento sensibile della produttività e tangibili risparmi. Ma gli aspetti della vita lavorativa che vengono sacrificati, accettando acriticamente la formula lavorativa “smart”, non sono pochi. Ne abbiamo parlato con Luigi Maria Sicca, Professore Ordinario di Organizzazione aziendale e di Comportamento organizzativo dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Il dipartimento che ci accoglie trabocca d’arte. Quadri, bozzetti, schizzi alla lavagna: il contesto estroso e creativo preannuncia la filosofia che sostiene in filigrana la riflessione del Professore sul lavoro smart. “Solitamente le innovazioni con grande impatto sociale scatenano i sentimenti più disparati tra tutti noi che ne siamo coinvolti. Così è anche per lo smart working che da alcuni è demonizzato, da altri vissuto come una specie di miracolo che cambierà le sorti del mondo”.

Convinto dell’impossibilità di poter formulare giudizi assoluti su questa forma organizzativa, Sicca distingue piuttosto la valutazione del fenomeno a seconda dei punti d’osservazione. “La flessibilità aumenta la produttività media di ciascuno e per il lavoratore avviene un benefico bilanciamento vita-lavoro”: a dirlo, numerose ricerche accreditate. Altri effetti positivi riguardano certamente la possibilità per ogni nucleo familiare di conciliare le esigenze lavorative con le incombenze domestiche o l’accudimento in presenza di figli, anziani o di soggetti diversamente abili. Alle imprese, inoltre, l’utilizzo dello Smart working consente di “ridurre i costi variabili quali consumi elettrici, acqua, manutenzione ordinaria e così via”. Passando dal fronte dei pregi potenziali a quello dei difetti, il lavoro da remoto sicuramente finisce per limitare le occasioni di incontro tra i lavoratori e i momenti di aggregazione e di consolidamento dei gruppi. Molti i fattori psico-fisici in gioco, tra cui il “venir meno di quella fondamentale conoscenza – insita nella natura umana – che è la conoscenza mediata dai sensi: il tatto, l’olfatto, il gusto, per esempio che sono materiali vivi, condivisi da noi tutti anche in sede di lavoro”. Lo smart working, suggerisce il Prof. Sicca, limita o azzera le possibilità di percorsi di conoscenza mediati dai sensi, che ricoprono un ruolo cruciale per ciò che concerne la creatività, i processi di problem solving, di team working e di crescita umana e professionale in azienda.

“Ci tocca però mettere sul piatto della bilancia che il futuro sarà caratterizzato da una ulteriore dematerializzazione delle relazioni interumane e quindi anche delle relazioni industriali perché la interconnessione in tempo reale non riguarderà solo le persone, ma anche le cose: il cosiddetto internet of everythings”. Affrontando analiticamente le implicazioni socio-cognitive dello smart working, bisogna dunque tenere in considerazione, accanto al ruolo svolto dal cervello (brain), quello svolto dalla mente (mind) che entra a pieno titolo nella formazione dei processi decisionali, dal vertice alla base, con implicazioni concrete sulla vita delle aziende e sulle modalità di produzione. La partita, ancora aperta, tra i sostenitori e i detrattori dello smart working, sarà condizionata dal modo in cui si sceglierà a livello locale o globale di ripensare le politiche industriali, facendo però anche i conti con quella “conoscenza mediata dai sensi”, locuzione dal sapore kantiano con cui il Professor Sicca lega indissolubilmente la contingenza economico-tecnologica ad una valorizzazione degli aspetti umanistici della riflessione economica, da decenni imbrigliata in maniera soffocante da un riduzionismo che finisce spesso, seppur in nome del rigore scientifico, per trascurare gli aspetti cognitivi, psico-sociali e creativi che giocano, al contrario, un ruolo cruciale per la produttività, per l’innovazione e per la crescita personale dei lavoratori e delle aziende.