Gli anni Novanta non torneranno, c’è poco da fare. E con loro non torneranno né le Spice Girls né i Nirvana, i Tamagotchi, il Game Boy né gli altri capisaldi dell’atlante sentimentale di quel decennio. Vale anche per la politica, che alla storia e al suo mutamento è legata dagli stessi fili che collegano le persone a bisogni, desideri e preoccupazioni che cambiano di continuo. Per la sinistra europea quel decennio ha significato soprattutto Tony Blair, che il 6 maggio scorso ha compiuto settant’anni e che ormai da sedici è fuori dalla politica attiva (essendosi dimesso nel giugno 2007 da primo ministro, leader del partito laburista e deputato) ma che non per questo ha mai smesso di rappresentare un tema di discussione – in positivo o in negativo – per chiunque si interroghi sul senso e gli obiettivi di una strategia progressista.

Una perseveranza che non è dovuta solo ai risultati della sua concreta azione di governo, compreso il disastro della vicenda irachena di cui fu certamente tra i protagonisti e al quale ha pagato un severissimo prezzo politico, ma soprattutto agli interrogativi che si posero a Blair e alla sua stagione. Perché quegli interrogativi sono in larga parte simili a quelli con cui siamo alle prese oggi. E le risposte che cerchiamo, nella loro sostanza e al netto delle enormi differenze storiche che ci separano da quel decennio, non cadono troppo lontano da quel perimetro.

Il più rilevante di quegli interrogativi è in fondo un grande classico di sempre: come conciliare la missione tradizionale della sinistra con il mutamento reale della società? La risposta che venne dal Labour di Blair non nacque già confezionata negli anni Novanta, ma iniziò a essere definita un decennio prima. Per la precisione dal 1983, quando la sinistra britannica incassò una sconfitta elettorale brutale sia nelle dimensioni numeriche che nel significato di un voto che consegnò a Margaret Thatcher una riserva di consenso destinata a durare oltre gli anni Ottanta. A quel voto i laburisti erano arrivati con un programma che prevedeva l’adozione di piani quinquennali di pianificazione, l’estensione della presenza dello Stato nell’economia, l’aumento delle tasse, l’introduzione nelle fabbriche di misure di controllo operaio di tipo consiliare. Con l’aggiunta dell’uscita del Regno Unito dall’Europa comunitaria perché – come si leggeva in quella che venne poi definita “la più lunga lettera di suicidio della storia britannica” – “il prossimo governo laburista sarà impegnato a realizzare una serie di politiche socialiste e radicali di rinascita economica, la cui attuazione sarebbe seriamente intralciata dalla permanenza del paese nella Comunità europea”.

In realtà “il prossimo governo laburista” sarebbe venuto solo nel 1997, dopo altri quattordici anni di egemonia conservatrice, e la fuoriuscita del Labour dalle secche nelle quali era precipitato vide un processo articolato che fu gestito a lungo da Neil Kinnock. Nominato leader dopo la catastrofe del 1983 e destinato a esserlo per un decennio, Kinnock si impegnò in una profonda revisione del programma laburista all’insegna della valorizzazione degli strumenti sociali dell’Europa, della necessità di una politica fiscale meno punitiva, dell’abbandono del mantra delle nazionalizzazioni, dell’accento sulle libertà individuali e soprattutto dell’idea del cosiddetto “Enabling State”: uno Stato che cessasse di essere il regolatore unico della vita economica per diventare il soggetto che metteva in condizione i cittadini di affrontare al meglio il cambiamento e le sue sfide.

Furono questi i mattoni sui quali Blair avrebbe poi costruito la ricetta politica destinata a trionfare nel 1997 e a incassare le due successive vittorie elettorali del 2001 e del 2005. Una ricetta alla quale egli aggiunse la qualità carismatiche di una leadership estremamente innovativa sul piano organizzativo e comunicativo, ma che da sole non sarebbero mai state sufficienti a dare alla sinistra britannica quel lungo periodo di governo se fosse mancata una visione d’insieme del suo tempo. Quella visione, in estrema sintesi, muoveva dalla convinzione che la missione tradizionale della sinistra (la tutela dei più deboli, unita alla redistribuzione economica) potesse essere realizzata con maggiore efficacia dentro un quadro di efficienza del mercato: da qui la scommessa su flessibilità e mobilità come strumenti di ripartizione delle risorse, la valorizzazione della concorrenza come tutela dei consumatori, la riforma del welfare all’insegna delle funzioni di abilitazione del cittadino in aggiunta a quella di protezione. Era un quadro simile a quello seguito negli stessi anni da altre esperienze di governo progressista in Occidente (compresa quelle di Clinton negli Stati Uniti e dell’Ulivo in Italia) e che poggiava su una lettura fortemente ottimistica di quella stagione storica.

La lunga crisi esplosa nel 2008 avrebbe dapprima eroso e poi demolito l’ottimismo tanto nelle virtù autonome dell’efficienza di mercato e della globalizzazione quanto nei limiti dell’intervento pubblico, mettendo al centro di tutte le agende politiche un’imponente domanda di nuova protezione (sociale, identitaria e culturale prima ancora che economica) a cui la destra ha risposto con la soluzione del populismo sovranista e con l’emarginazione della tradizionale impostazione liberal-liberista.

E la sinistra? Ne stiamo ancora discutendo, tentando varie strade che all’apparenza non sembrano essere sempre compatibili l’un l’altra. All’apparenza, per l’appunto. Perché è qui che forse ci arriva dalla Gran Bretagna un insegnamento sempre valido, nonostante lo scorrere inesorabile del tempo e al netto delle enormi differenze tra diversi sistemi politici: è solo dentro i confini dei grandi partiti che la sinistra riesce a perdere, cambiare, sbagliare, vincere, perdere e cambiare di nuovo. Come è accaduto al Labour che, dopo Blair, ha mutato pelle non una ma due volte (prima con Corbyn e poi con Starmer) e che oggi si appresta a scalzare i Conservatori dal governo.