È ormai esercizio obbligato sognare la palingenesi del dopo, legata – si dice e si spera – a profonde revisioni etiche e antropologiche. Il mio sogno non ha niente di così elevato. Tutti sogniamo un’Italia sburocratizzata, sogno antico perché retaggio antico è la presenza di gabbie burocratiche. Ma il mio sogno è che l’Italia si liberi di un altro male, più recente che ha aggravato l’antico male della burocratizzazione, un male che la sta soffocando. È quello indotto dall’imperante clima di sospetto, diffidenza e d’invocazione a ogni piè sospinto del grande giustiziere. La paura del contagio sembra aver messo in quarantena questo clima, facendo trionfare solidarietà, fiducia e apertura verso il prossimo, ma il rischio, non remoto, è che esso torni ad imperare.

Va subito precisato che il clima del sospetto non è solo italiano, ma poiché in Italia tutto è ingigantito, ha creato un cielo particolarmente plumbeo. E i danni che ha prodotto non sono solo psicologici, ma istituzionali, nel senso che da quel clima – fatto proprio da settori della politica non sempre animati da puri intenti di rigore morale o prigionieri del politically correct – è sgorgata tutta una normativa (legislativa e regolamentare a vari livelli), ispirata al sospetto e volta a imporre ossessivamente limiti e controlli a ogni attività. Tutto ciò si è calato in un contesto socio-culturale che già aveva complicato le cose, travolgendo i capisaldi antichi nel mondo del diritto.

Da oltre due secoli la civiltà giuridica si era assestata – dopo la lunga stagione dell’arbitrio giurisprudenziale, ben rappresentato dall’Azzeccagarbugli manzoniano – sul principio del primato assoluto della legge, tanto che Beccaria poteva scrivere “Quando il giudice voglia fare anche solo due sillogismi, si apre la porta all’incertezza… Un disordine, che nasce dalla rigorosa osservanza della lettera di una legge, non è da mettersi in confronto coi disordini che nascono dalla interpretazione”. E così la legge era diventata prescrittiva di comportamenti precisi, era fatta di divieti e sanzioni e caratterizzava il diritto come mondo della ‘certezza’. Il dopo guerra ha invece fatto cambiare pelle al diritto. Le tragedie vissute hanno portato all’affermazione del “diritto per principi”, di un diritto non più prescrittivo, ma ‘orientativo’ attraverso principi codificati.

La nostra Costituzione, ma non solo la nostra, ne è esempio luminoso. Con gli sviluppi giurisprudenziali essa da tempo ha cessato di essere deposito di principi ispiratori delle leggi ordinarie, per diventare testo direttamente applicabile da parte del giudice ordinario. Il fenomeno s’è poi esteso a macchia d’olio a tutti i livelli. Ciò ha straordinariamente ampliato i confini dell’attività dei giudici, spesso chiamati a risolvere i conflitti tra principi che, con sempre maggiore frequenza, emergono dai casi concreti, a tutto discapito dell’esigenza di certezza. Guardando nella profondità dei secoli si può ben dire che la storia giuridica è fatta di alternanza nel dominio del diritto tra legislatori e giudici.

Alternanza, senza andare alla romanità che l’ha ben conosciuta nella sua lunga storia, che si è manifestata nel trapasso dall’età postmedievale, dominata dalla giurisprudenza, all’età dei lumi rigorosamente dominata dal principio di stretta legalità. Il pendolo della storia oggi ci ha riportati sotto il pieno dominio della giurisprudenza. Nel nostro Paese, dove la magistratura, grazie a un faticoso compromesso costituzionale, era già stata di fatto elevata a ‘potere’ completamente autarchico, condizione sconosciuta alle altre democrazie occidentali, questa rivoluzione nel modo di essere del diritto ne ha oggettivamente ampliato a dismisura gli spazi d’azione. A questa “rivoluzione nel mondo del diritto”, s’è poi aggiunta un’altra rivoluzione antropologica: nessuno oggi è più disposto ad accettare né una situazione sfavorevole legata a un giudizio o a un’attività umana (una bocciatura scolastica o un intervento chirurgico non riuscito), né una calamità naturale, nella quale si è sempre alla ricerca del concorrente fattore di colpa umana.

Di qui l’abnorme domanda di giustizia. Se a questo quadro si aggiunge il particolare da cui hanno preso le mosse queste considerazioni, è cioè l’ossessione nel porre limiti e controlli a ogni attività, si ha la piena visione di un paese ingessato. A catena le ragioni di paralisi si moltiplicano. Nell’amministrazione, campo dell’imprescindibile discrezionalità operativa, per il dovere di rispondere alle tante e diverse esigenze, gli operatori fanno di tutto per evitare di assumere le responsabilità loro proprie e comunque cercano di cautelarsi in mille modi, ricorrendo anche a polizze assicurative, che diventano carichi di spesa aggiuntivi per gli enti amministrati.

E lo stesso fanno i chirurghi, per limitarci a questa sola categoria che, per questa ragione, vede assottigliarsi in modo preoccupante, l’arruolamento di nuove leve. Potrei scendere a una casistica minuta a riprova di come l’insana voglia di tutto controllare e prevenire stia sempre più imbrigliando il paese in quella rete di ‘lacci e lacciuoli’, denunziati molti anni fa da Bruno Visentini, riprendendo un’espressione di Tommaso Campanella. A titolo d’esempio, mi limito ad accennare a due piccoli casi concreti, nei quali sono rimasto imbrigliato nella mia funzione di presidente di un Istituto di ricerche genetiche (Biogem), cofondato qualche anno fa insieme a due eminenti scienziati e amici, Renato Dulbecco e Nino Salvatore.

Avendo l’istituzione necessità di immediata piccola liquidità (per l’accumulo di crediti da pubbliche amministrazioni) ci si rivolse all’agenzia locale di una Banca nazionale che, dopo aver assicurato pronta disponibilità, ripensandoci, comunicò di dover chiedere l’autorizzazione al prestito del consiglio di amministrazione centrale, con un imprevedibile allungamento dei tempi, a causa della condizione soggettiva del rappresentante legale, cioè del sottoscritto. Appresi così di essere ufficialmente etichettato PEP (acronimo di “persona politicamente esposta”), di essere perciò considerato scarsamente affidabile per il solo fatto d’aver esercitato pubbliche funzioni elettive.