Campane a morto anche per l’economia. «Nel 2020 un netto calo del Pil è comunque ormai inevitabile: lo prevediamo al -6,0%, sotto l’ipotesi che la fase acuta dell’emergenza sanitaria termini appunto a maggio. Si tratta di un crollo superiore a quello del 2009, e del tutto inatteso a inizio anno» – così il report della Confindustria – ma «ogni settimana in più di blocco normativo delle attività produttive, secondo i parametri attuali, potrebbe costare una percentuale ulteriore di Pil dell’ordine di almeno lo 0,75%». L’allarme è chiaro ed è diretto alle autorità che si apprestano a prolungare la quarantena almeno per altre due settimane.

Del resto è la strategia scelta – sia pur con qualche incertezza – dal governo fin dall’inizio dell’epidemia a dare priorità all’emergenza sanitaria, nella speranza che il Paese potesse uscire dal tunnel in un tempo più breve. Poiché questa aspettativa è risultata vana, diventa necessario ipotizzare una diversa strategia: passare dal contenimento alla convivenza con il virus. Ovviamente questo cambiamento non può essere improvviso come quando nei viaggi aerei intercontinentali si attraversa la linea del sole. Vi è l’esigenza di una transizione adeguata che prenda le mosse da un miglioramento delle condizioni sanitarie, sia per quanto riguarda le dimensioni del contagio, la possibilità delle strutture sanitarie di farvi fronte e l’individuazione di terapie più efficaci. In parallelo – questo pare essere il progetto del governo – occorre rimettere in moto l’economia con l’obiettivo di sostenere i redditi non solo con interventi monetari, ma anche con la riattivazione dei posti di lavoro all’interno dei settori produttivi, che devono ripartire.

E se un coordinamento è mancato a livello europeo nella fase dell’emergenza sanitaria, non può venir meno nell’organizzazione del riavvio. Le economie, in particolare quelle europee, sono troppo interconnesse tra di loro per funzionare con tempi e ritmi diversi. C’è un problema di forniture che coinvolgono gli apparati industriali di diversi Paesi (si pensi ai legami tra le produzioni tedesche e quella delle regioni della Val Padana). Se i flussi venissero interrotti diventerebbe necessario ricostruire altrove le filiere produttive.

Ormai non esiste più un apparato produttivo nazionale autosufficiente, soprattutto per un Paese come l’Italia la cui economia ha potuto ‘’tirare il fiato’’ grazie alle esportazioni. Del resto, anche in regime di quarantena generalizzata, non sono pochi i lavoratori che, sia pure con tutti gli accorgimenti possibili, hanno continuato a lavorare per la sopravvivenza materiale degli italiani (e degli stranieri che risiedono qui). Fabrizio Patriarca ha pubblicato su Huffington Post una stima sul numero di lavoratori che garantiscono i beni e i servizi ritenuti essenziali (attraverso un negoziato con le parti sociali, il cui esito è stato giudicato soddisfacente da parte dei sindacati). Escludendo i settori della scuola e della pubblica amministrazione (che sono soggetti a restrizioni specifiche) la quota di lavoratori necessari è pari al 47% del totale: circa 8,6 milioni.

Con la ripartenza graduale delle attività economiche, alle quali si promette tutta la liquidità necessaria, bisognerà riflettere sul perché i finanziamenti per le opere pubbliche e le infrastrutture non venivano spesi anche prima della catastrofe sanitaria. Si dovrebbe quindi cogliere l’occasione di questa fase di legislazione straordinaria per costituire un quadro normativo adeguato. In primo luogo deve essere rivisto il Codice degli appalti (dlgs n.50/2016). Un provvedimento nato sotto cattivi auspici tanto che il governo di allora fu costretto ad emanare un avviso di rettifica di ben 188 articoli su 220. A parte gli innumerevoli e sbadati refusi, l’aspetto più grave (che fu denunciato da Gianantonio Stella sul Corriere della sera), riguardava i rinvii legislativi errati. Qualunque legge si muove in un quadro normativo più ampio e deve fare riferimento ad altre norme contenute in commi ed articoli di altri provvedimenti legislativi (contrassegnati da date e numerazioni).

Se queste indicazioni sono sbagliate (e, nel codice, lo erano per un numero impressionante di volte) l’interprete (che è poi un’impresa che deve lavorare) o finisce su di un percorso sbagliato o si infila lungo un binario morto da cui non è più in grado di uscire. Ve li immaginate gli uffici tecnici delle aziende che devono consultare la legge tenendo sott’occhio l’opuscolo degli errata corrige? Ma la questione più grave sta nella “filosofia” del Codice che si basa, nei fatti, su di una presunzione di valore assoluto: gli appalti sono inficiati dalla corruzione e dalla concussione. E dagli abusi. Basti pensare che il Codice è accompagnato da un documento di Linee guide deliberato dall’Anac su come valutare l’offerta più vantaggiosa. Fare l’imprenditore nel settore delle costruzioni è diventata una professione rischiosa.

A parte tutte le difficoltà per vincere gli appalti, ottenere le commesse e i pagamenti con frequenza regolare, costoro (certo, non sono tutti stinchi di Santo) devono mettere in conto di essere intercettati fin dal primo minuto, di ritrovare, pubblicate sui quotidiani, le registrazioni delle loro conversazioni, di ricevere una sequela di avvisi di garanzia e, magari, anche di visitare per qualche mese le patrie galere, assistiti da una campagna mediatica diffamatoria. Tutto ciò, anche in assenza di eventuali malversazioni. Ovviamente si evoca l’ombra di Banko della burocrazia inefficiente e sorniona. E nessuno ha il coraggio di riconoscere che il “mettere una firma” da parte di un funzionario, potrebbe comportare quanto meno un avviso di garanzia, un atto che ormai è divenuto un preavviso di colpevolezza.