Rispetto al fatto che di fronte alla sentenza di assoluzione della Corte di Assise di Palermo nei confronti di Mori, De Donno, Subranni (con una motivazione) e di Marcello Dell’Utri (con un’altra motivazione) c’è chi, come Travaglio, in preda a un’autentica crisi di nervi cerca di cambiare tutte le carte in tavola, conviene partire dai dati più elementari. Assolvendo Mori, De Donno e Subranni con la motivazione che il fatto non costituisce reato la sentenza ha affermato che gli ufficiali del Ros hanno svolto dei colloqui investigativi con Vito Ciancimino, il quale prima che democristiano (oscillava fra le correnti di Colombo e di Andreotti) era innanzitutto un mafioso corleonese. I Ros ebbero quei colloqui per capire se egli poteva fornire indicazioni per arrivare ad arrestare Totò Riina e gli altri capi corleonesi. Nel caso lo avesse fatto egli e la sua famiglia (qui ci fu la trattativa) avrebbero avuto un trattamento migliore.

Gli ufficiali dei Ros comunicarono quei contatti a chi di dovere, cioè a Borsellino, al ministero della Giustizia, a Martelli che ebbe da ridire sul piano politico, non su quello penale, a Caselli e ad altri. Di grazia, in presenza di una situazione stragista con chi devono parlare i Ros, con i francescani di Assisi, con le suore orsoline o con chi sta nella terra di nessuno o nella terra altrui? Poi questi colloqui possono ottenere risultati o no, ma il punto fondamentale è che la loro liceità era indubbia. Invece da un certo momento in poi Ingroia, Scarpinato, Teresi, Di Matteo con l’ausilio di un apparato giornalistico e mediatico straordinario (Bianconi, Bonini, Travaglio, Purgatori, Ranucci) hanno completamente forzato e manipolato questa iniziativa, che il Ros non aveva per niente nascosto tramutandola in una cosa ben diversa, cioè con l’apertura di una trattativa – con tanto di do ut des – fra la mafia e il cosiddetto Stato. Però già il termine “trattativa” era in sé improprio, per cui per criminalizzare il tutto si è ricorso a quello di “attacco ai corpi dello Stato”.

Su ciò, già da tempo, una personalità come il professor Fiandaca, già iscritto al Pci, un personaggio certamente al di sopra di ogni sospetto, ha scritto libri, saggi, articoli e rilasciato interviste che smontavano tutta l’operazione costruita dai pm. Ma la manipolazione non si è fermata alle origini, essa doveva per forza coinvolgere vertici dello Stato, ministri, uomini politici di grado elevato. A quel punto l’operazione è diventata anche selvaggia, efferata e ha fatto danni incalcolabili. E adesso è andata incontro al disastro, il che spiega anche la crisi di nervi di Travaglio e il suo tentativo estremo di cambiare anche in questo caso le carte in tavola. Si è visto che l’unica operazione che poteva andare incontro a una richiesta della mafia era quella fatta dal ministro Conso in totale solitudine – ed essendo al di sopra di ogni sospetto – sui 300 sottoposti al 41bis. Si è accertato che essa dipendeva comunque da una richiesta della Corte Costituzionale che non riteneva automatico il rinnovo della misura, che di quei 300 solo 18 venivano considerati mafiosi anche se di basso livello e poi 7 di essi furono anche riarrestati.

Fuori Conso, fuori ovviamente Amato e Ciampi, a un certo punto l’attenzione dei pm si è concentrata su Mancino, ministro dell’Interno, e da lui è passata anche sul presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Sennonché Napolitano nel confronto diretto ha “spianato” e ridicolizzato lor signori sul piano dialettico, e successivamente anche Mancino veniva assolto. Nel corso di questo assalto, con componenti eversive, alla presidenza della Repubblica, ci ha rimesso la vita Loris D’Ambrosio colpito da infarto, il consigliere giuridico del presidente Napolitano. D’Ambrosio tutto avrebbe potuto immaginare tranne che di venirsi a trovare in una situazione nella quale il presidente Napolitano sarebbe stato di fatto attaccato per essere stato uno dei punti di riferimento, con il ministro dell’Interno, di un’operazione in cui lo Stato italiano aveva trattato con la mafia la modifica di alcune leggi e il regime carcerario.
Colgo l’occasione per fornire una testimonianza che risale ai tempi di quando ero capogruppo di Forza Italia-Pdl.

D’Ambrosio, lo sa bene Marcello Pera, e lo sapeva bene la compianta Jole Santelli, allora responsabile giustizia del partito, era la nostra inesorabile controparte che, anche con inaccettabili forzature, a nome della presidenza della Repubblica sottoponeva a un occhiuto controllo preventivo le leggi più significative e più delicate del governo Berlusconi: figurarsi se un tipo del genere avrebbe consentito a Mancino, ai Ros o a chicchessia di inoltrarsi in una trattativa di quel tipo. Eppure allora Ingroia e compagni ipotizzarono anche questa operazione. Però tolti Napolitano, Conso, Amato, Ciampi, ovviamente Martelli e Scotti, assolto Mancino, non rimase che il povero Calogero Mannino, personalità democristiana di un notevole spessore. Perdipiù solo chi ignorava la storia della Dc siciliana o la voleva ignorare poteva cancellare il fatto che Mannino era in polemica con altre correnti democristiane anche ai tempi della mafia versione Bontade (cioè prima della presa del “potere” da parte dei corleonesi). Comunque Mannino fu ristretto in carcere da lor signori fino a essere ridotto in fin di vita per un sopraggiunto tumore.

Per circa 30 anni Mannino è andato avanti e indietro nei tribunali fra assoluzioni e ricorso dei pm. In più, esclusi tutti gli altri soggetti, e con tutto il rispetto per la sua statura politica, certamente egli non aveva una tale forza politica da imporre allo Stato, al governo, al ministero della Giustizia la modifica delle leggi antimafia e del regime carcerario. Perdipiù contenute in un papello del quale si è contestata anche l’autenticità. Non parliamo poi di Marcello Dell’Utri: egli è stato chiaramente chiamato in causa perché contro Berlusconi bisognava evocare la mafia. Senonché a proposito di Dell’Utri non c’era traccia di nulla, né in partenza, né in arrivo. Né che la mafia corleonese l’avesse interpellato (badate bene, quella corleonese: Dell’Utri ha avuto un condanna per noi non condivisibile per concorso con la mafia a guida Bontade, ma fra di essa e quella corleonese ci stanno centinaia di morti ed è difficile ipotizzare che Dell’Utri potesse essere interpellato anche da coloro che avevano trucidato i suoi eventuali interlocutori originari, né che egli fosse arrivato a “minacciare” Berlusconi.

A sua volta Berlusconi non ha certo modificato le leggi antimafia in senso favorevole ai clan: anzi, come è stato riconosciuto dal presidente Grasso la legislazione antimafia durante i governi Berlusconi è stata notevolmente accentuata. Il decreto Biondi riguardava Tangentopoli e non la mafia. Di conseguenza tutta un’operazione giudiziaria, ma anche politico-culturale è stata rasa al suolo. Si è cercato di demonizzare culture politiche, leader della Prima e della Seconda Repubblica, l’espressione “trattativa Stato-mafia” aveva una grande forza evocativa, non a caso alcuni pm hanno addirittura cercato di scrivere “La vera storia d’Italia” attraverso le loro sconnesse costruzioni giudiziarie. Un’operazione di grande velleità che però ha costruito meravigliose carriere nella magistratura (vedi Di Matteo) e anche nel giornalismo. Questa però è l’occasione per rivolgere anche qualche domanda a lor signori. Di grazia, perché nessuno di essi (ci riferiamo ai pm) ha contestato il fatto che la procura di Palermo ha archiviato il dossier mafia-appalti a pochi giorni dall’assassinio di Borsellino?

La figlia di Borsellino ha anche ricordato che suo padre espresse la sua indignazione perché Giammanco neanche gli riferì che il Ros Subranni aveva informato la procura che era in giro una partita di tritolo a lui destinata. E perché, di grazia, tutta la Sapienza giuridica dei pm e la forza mediatica di tanti giornalisti non si è mobilitata di fronte al depistaggio del processo Borsellino? Anzi, a suo tempo Di Matteo non capì quello che invece comprese Ilda Boccassini e cioè che Scarantino era un pentito fasullo e costretto a farlo da un personaggio di grande rilievo come il questore La Barbera. Perdipiù alcune delle cose che fecero dire a Scarantino poteva saperle solo chi aveva partecipato all’attentato. In questa situazione Travaglio non ha trovato di meglio che insultare i Ros che hanno arrestato Totò Riina, ma lo fa non solo perché sta difendendo il tentativo fallito di una lettura di stampo questurino della storia italiana, ma perché sta difendendo un grande business, basato su un giornale, su libri, su rappresentazioni teatrali, su trasmissioni televisive, sulle carriere folgoranti di alcuni magistrati e anche sul successo elettorale di alcuni grillini.

Ma il punto fondamentale è anche un altro. La ricostruzione di quello che è avvenuto nella realtà e non nella fantasia di Purgatori, di Ranucci, di Bianconi e compagnia bella dà poco spazio alla leggenda secondo la quale la sinistra sarebbe stata la quintessenza dell’antimafia. Le cose non stanno così. In primo luogo quando il governo Andreotti, con Scotti e Martelli, attraverso un decreto rimandò i capi mafia in carcere il Pci-Pds condusse in parlamento l’unica grande battaglia garantista della sua storia. Ma c’è di peggio. Quando Purgatorio nel corso di una trasmissione televisiva ha affermato con aria pensosa: “Falcone è stato lasciato solo”, ha omesso di dire chi lo ha isolato. Certamente il procuratore Giammanco e i suoi pm non spalleggiarono mai né Falcone, né Borsellino. Ma quando nel gennaio 1988 c’era in discussione la nomina di consigliere istruttorio a Palermo, al Csm Elena Paciotti di Md fra Falcone e Meli motivò la scelta della corrente per il secondo. Nel settembre del 1991 Leoluca Orlando Cascio e altri firmarono un dossier con il quale attaccarono frontalmente Falcone. Nel corso del successivo Csm Falcone rispose che «la cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, ma l’anticamera del khomeinismo».

Quando si discusse il progetto della super procura, ideato proprio da Falcone, una vasta coalizione composta dal Pds, da Magistratura Democratica, da Orlando Cascio fu contro la sua costituzione e ancora più contro la sua assegnazione a Falcone. Sull’Unità del 12 marzo 1982, Alessandro Pizzorusso scrisse un articolo dal titolo: “Falcone super procuratore? Non può farlo, vi dico perché. Il principale collaboratore del ministro non dà garanzie di indipendenza”. Dopo il suo assassinio Ilda Boccassini ad un’assemblea commemorativa indetta da Md a Milano così parlò: «Anche voi avete fatto morire Falcone con la vostra indifferenza e con le vostre critiche, voi che diffidavate di lui. Due mesi fa ero a Salerno in un’assemblea dell’Anm. Le parole più gentili erano queste: Falcone si è venduto al potere politico. E tu Gherardo Colombo, tu che diffidavi di Giovanni, che sei andato a fare al suo funerale? L’ultima ingiustizia l’ha subita proprio da voi a Milano. Gli avete mandato una rogatoria per la Svizzera senza gli allegati. Mi disse: “che tristezza, non si fidano del direttore degli Affari Penali”». La storia di tutti questi anni quindi va riscritta, anzi ciò sta ora avvenendo. Altro che “La vera storia d’Italia” inventata da alcuni pubblici ministeri.