Chi fa le regole?
Trump, un mese di mandato a colpi di ordini esecutivi: sempre meno Presidente e più monarca

Nel primo mese del suo mandato, Donald Trump ha firmato 73 ordini esecutivi (“executive orders“). Un record rispetto ai suoi predecessori, da Bill Clinton in poi. Come è noto, non richiedono l’approvazione del Congresso e gli consentono di agire come un legislatore al limite di ogni controllo giurisdizionale, il cosiddetto “judicial review”. Il potere di emanare questi ordini, sebbene non sia menzionato in Costituzione, è stato fin dai tempi di George Washington rivendicato da tutti i presidenti americani. Questi ultimi lo hanno dedotto proprio dal secondo articolo della Costituzione, che impone al presidente degli Stati Uniti di “farsi carico che le leggi siano fedelmente eseguite”. Le leggi sono ovviamente tanto quelle ordinarie quanto la Costituzione stessa, cosicché l’interpretazione delle norme delle une o dell’altra lascia ampio spazio a un’attività presidenziale che – pur presentandosi come esecutiva – sconfina spesso in quella legislativa.
I precedenti
Nella storia americana, memorabili sono gli “executive orders” di Abraham Lincoln, che durante la guerra civile sospese l’habeas corpus; di Franklin Delano Roosevelt, con la creazione di campi d’internamento per i giapponesi; di Dwight Eisenhower, che inviò la guardia nazionale a difesa dei bambini neri della scuola di Little Rock. In ognuno di questi casi, la legittimazione dell’ordine esecutivo era stata desunta dal dovere di dare applicazione a una norma costituzionale, così come interpretata dal presidente stesso.
Il gioco dei pesi e contrappesi
In che modo il potere legislativo e quello giudiziario possono allora contrastare e limitare la facoltà di emanare gli “executive orders”, ossia norme dotate della stessa forza delle leggi federali che il potere esecutivo, nella persona del presidente, si attribuisce? Un ordine esecutivo che il Congresso non condivide può ovviamente sempre essere annullato da una nuova legge parlamentare. Il gioco dei “pesi e contrappesi” (“checks and balances”), però, a sua volta permette al presidente di porre il veto sulla legge che annulla l’ordine, per cui solo un’improbabile maggioranza qualificata di due terzi del Congresso potrebbe confermare la sua eliminazione. Non basta. La legge generale sul procedimento amministrativo del 1946 (“Administrative Procedure Act”) vieta qualunque azione governativa “arbitraria, capricciosa, che costituisca un abuso di discrezionalità o che comunque sia in contrasto con il diritto, o sia sprovvista di adeguata base giuridica”. Essa consente all’Attorney general di uno Stato (il nostro ministro della Giustizia) di sospendere temporaneamente l’operatività di un ordine esecutivo considerato illegittimo. E consente a un giudice federale di sospenderlo in tutto il territorio nazionale.
Il monarca
In caso di ricorso, l’ultima parola spetta alla Corte Suprema. Questo è un compendio assai sintetico della separazione dei poteri che vige in una patria della democrazia liberale. Per un verso dimostra la sua vitalità, per l’altro i rischi da cui non è immune (e che già Tocqueville segnalava). Oggi Trump si comporta come un monarca perché ha in mano Congresso e Corte Suprema. Certo, il suo potere non è assoluto, ma agisce come un sovrano di Antico Regime, ossia per volontà del popolo e per grazia di Dio. È vero, tra quattro anni non sarà più alla Casa Bianca. Speriamo che non occorrano intere generazioni per ricostruirla dalle fondamenta.
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