Parlando della situazione a Gaza, Sean Bell, corrispondente militare per Sky News UK, ha detto: “Da militare, è con tristezza che devo riconoscere l’assenza di una soluzione militare agli eventi in corso. Al termine di questa operazione, indipendentemente dal numero di vittime, ci si chiederà: è stata una distruzione giustificata? Probabilmente no. Hamas sarà stato annientato? Probabilmente no. Israele sarà più sicura? Probabilmente no. I problemi di fondo saranno stati risolti? Decisamente no”.

Dico subito che sono osservazioni che mi sento di condividere, quelle di Sean Bell. Mettono a nudo uno scenario che da mesi considero plausibile: con un non trascurabile bilancio in vite umane, le cose non cambieranno di molto rispetto a prima del 7 ottobre. Si tratta ovviamente di una mia, viceversa, trascurabilissima opinione personale che deriva soprattutto dalla circostanza che i due principali antagonisti del terribile scontro in atto, al momento, sono gli stessi di prima del 7 ottobre: il governo Netanyahu e Hamas.

Ma, visto che gran parte dell’attenzione del mondo è rivolta a condannare le azioni d’Israele, vale la pena di ricordare che tutto quello che sta accadendo lo si deve all’azione terroristica di Hamas del 7 ottobre. Lo so che, con toni e accenti diversi e con qualche pudica reticenza, la maggior parte dei sostenitori della causa palestinese ha fatto propria la tesi del segretario generale Guterres secondo il quale l’attacco di Hamas non è venuto dal nulla ma è frutto di anni di occupazione. E altri, quelli con meno peli sulla lingua, hanno parlato di un “giustificato atto di resistenza”.

Ora, io faccio un po’ fatica a comprendere quale resistenza si ponga l’obiettivo tattico o strategico di ammazzare a sangue freddo donne e bambini ma magari ho una visione dei fatti limitata. A me il 7 ottobre è sembrata più l’esecuzione di una feroce vendetta e presumo questa sia la ragione per cui i molti odiatori occidentali d’Israele non si sono più di tanto mossi a pietà. La vendetta sedimentata negli anni tende a trasfigurare le vittime, opacizzandone l’umanità e le loro storie individuali. E ciò credo sia una delle leve profonde per cui i pro-Pal strappano i manifesti con i volti degli ostaggi e delle vittime israeliane: quei volti umanizzano un evento che viceversa deve rimanere come un atto rivoluzionario ed impersonale.

Eppure, manca qualcosa. Perché, se Sean Bell ed io con lui, siamo qui ad interrogarci sugli obiettivi di Netanyahu e del suo governo, su quale visione vi sia in Israele rispetto ad un “dopo”, continuo a non trovare riflessioni speculari sull’operato di Hamas. Consumata la tremenda vendetta, quale scenario futuro immaginavano i dirigenti di Hamas? È legittimo farsi questa domanda o Hamas ha il diritto ad agire solo come organizzazione terroristica che non bada alle conseguenze delle proprie azioni? Perché le domande, che ci facciamo sull’operato di Netanyahu prima e dopo il 7 ottobre, non vengono estese ad Hamas che è – a tutti gli effetti – un soggetto politico e militare? E ancora, qualcuno è a conoscenza di cosa pensano i palestinesi di Gaza dell’operato di Hamas?

Filippo Piperno

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