Ha tuonato tanto. Per una settimana. Ma alla fine neppure una goccia. Mario Draghi ha ottenuto un mandato pieno dal Senato, e sarà così anche oggi alla Camera, per affrontare il Consiglio europeo di giovedì e venerdì. La tormentata risoluzione di maggioranza, figlia di una gestazione lunga 24 ore, è stata alla fine votata da tutti i gruppi di maggioranza, compresi i 5 Stelle, contiani e dimaiani. Sul tabellone elettronico di palazzo Madama i numeri non lasciano dubbi: 219 a favore, 20 contrari, 22 astenuti tra cui la 5 Stelle Giulia Lupo. Il Movimento si è spaccato, Luigi Di Maio farà alla fine il suo gruppo (Insieme per il futuro) portando con sé una cinquantina di parlamentari (su un totale di 220) e quello di ieri, e di oggi, sarà probabilmente l’ultimo voto insieme che certificherà la fine di una parabola politica lunga dieci anni.

Ma questa è l’altra storia di questi giorni, la storia minima, triste e meschina di un partito che voleva governare il mondo e aprire i palazzi “come una scatoletta di tonno” ed è finito a consumare il proprio congresso, che non ha avuto il coraggio di celebrare nei modi e nelle sedi opportune, sulla pelle del dossier Ucraina che è una faccenda invece molto molto seria. Se è vero, come è vero, che il 24 febbraio 2022, quando Mosca ha invaso uno stato autonomo con i carri armati, l’ordine mondiale ha iniziato a cambiare, il dossier Ucraina è oggi la “penna” e il “libro” con cui si cerca di costruire il nuovo ordine mondiale. Non può certo diventare il ring per il regolamento di conti di un partito che ha perso testa, cuore e leadership. Giuseppe Conte ha provato, anche questa volta, a rubare la scena e a essere protagonista di questo dibattito. Ha perso su tutta la linea. Il premier Draghi si è levato la soddisfazione di esaltare la sua vittoria. «Ringrazio – ha voluto sottolineare nella sua replica a palazzo Madama quando era stato appena consegnato il testo definitivo della risoluzione di maggioranza – perché il sostegno è stato unito e l’unità, come molti di voi hanno osservato, è essenziale specialmente in questi momenti. Ringrazio infine anche per un altro motivo, quasi personale: in questi momenti, quando il Paese è sia pure indirettamente coinvolto in una guerra, le decisioni che si devono prendere sono molto complesse, profonde, con risvolti anche morali. Per cui avere il sostegno del Senato nel prendere queste decisioni è molto, molto importante, per me».

La capogruppo 5 Stelle al Senato Mariolina Castellone ha avuto l’ingrato compito di dover trovare le parole per rivendicare “la vittoria” del Movimento e del presidente Conte che hanno ottenuto che nel testo fossero inseriti alcuni passaggi “fondamentali”. Uno soprattutto: il coinvolgimento del Parlamento – che sarà “necessario” oltre che “ampio” – in occasione dei più importanti summit internazionali riguardanti la guerra in Ucraina ogni volta che ci sarà da prendere decisioni importanti “ivi compresa la cessione di armi”. Hanno provveduto gli altri interventi – pesantissimo quello dell’ex 5 Stelle Gregorio De Falco e delle capogruppo azzurra Bernini (“noi siamo i pacifisti del fare”) – a smontare le fragili certezze della capogruppo. Conte chiedeva, da più di un mese, che la risoluzione contenesse un no secco a ogni nuovo invio di armi. Così come pretendeva che il Parlamento fosse non solo coinvolto ma potesse anche votare su ogni decisione del governo in relazione al dossier Ucraina. La trattativa sul testo della risoluzione si è bloccata proprio su questo punto tra lunedì sera e martedì alle 17 quando è arrivata in aula. Era l’ultima bandiera rimasta all’ex premier, l’ultimo motivo per poter dire “comando anch’io e non solo Draghi”.

Conte ha ottenuto un aggettivo in più per cui il coinvolgimento sarà “ampio” oltre che “necessario”, ma il governo – tramite il sottosegretario Enzo Amendola (Pd) – ha tenuto il punto. E ha piazzato la frase “con le modalità ivi previste” che sono per l’appunto quelle votate a fine febbraio col decreto 14/2022. È il decreto che a inizio guerra dette mandato al governo di cercare in ogni modo la pace, di sostenere anche con l’invio di armi la resistenza dell’Ucraina e di dare supporto umanitario. Questo fino a fine dicembre con l’obbligo di informare il Parlamento ogni tre mesi. Cosa che in realtà è successo in questi mesi molto più spesso nelle forme “ivi consentite”: informativa del ministro della Difesa al Copasir e alle commissioni Esteri e Difesa del Parlamento. Tutti luoghi dove Conte non può esercitare il proprio verbo perché non è eletto in Parlamento. Conte avrebbe voluto cancellare questo decreto con il voto di ieri. Sarebbe stato lo scalpo da issare nella sede di via Campo Marzio. Nulla da fare. Respinto su tutta la linea. Il decreto 14 è la cornice di riferimento della risoluzione E la sede di via Campo Marzio ieri è diventato un bunker assai scomodo. Quella di Draghi è stata una delle informative più brevi.

Ventitrè minuti per ribadire quanto dice e ripete da sempre: «L’Italia continuerà a lavorare con l’Unione europea e i nostri partner del G7 per sostenere l’Ucraina, ricercare la pace, superare questa crisi. Questo è il mandato che il governo ha ricevuto dal Parlamento, da voi. Questa è la guida per la nostra azione». Alla destra del premier il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, alla sinistra il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che è rimasto impassibile durante tutto il dibattito al netto di qualche occhiata furtiva sul telefonino e qualche messaggio digitato con grande velocità. Draghi non ha mai usato la parola armi ma ha ripetuto come «solo una pace concordata e non subita può essere davvero duratura e come la sottomissione violenta e la repressione di un popolo per mano di un esercito non portano alla pace ma al prolungamento del conflitto. Ecco perché continueremo a sostenere l’Ucraina così come questo Parlamento ci ha dato mandato di fare».

Draghi ha ribadito l’impegno dell’Italia per far entrare nella Ue l’Ucraina e altri paesi balcanici, un modo anche per opporsi al progetto di un nuovo ordine mondiale previsto da Putin da cui consegue la necessità di nuove e più snelle regole europee. Ha spiegato perché “le sanzioni funzionano” (-8,5 di pil nel 2022) e perché non è più rinviabile la decisione di mettere un tetto al prezzo delle materie prime: le famiglie e le imprese non possono più aspettare. Non solo: in questo modo sarebbero ridotti anche i flussi finanziari verso Mosca. «Le forniture (di gas, ndr) sono ridotte, il prezzo aumenta, l’incasso da parte di Mosca resta lo stesso, le difficoltà per l’Europa aumentano vertiginosamente. Dobbiamo muoverci con rapidità», ha detto Draghi. Se non ora, quando?

Mentre il premier parlava al Senato, a palazzo Cenci, pochi passi da palazzo Madama, le delegazioni di maggioranza erano ancora in stallo sul testo della risoluzione. Che si è sbloccata poco prima delle 17 con l’aggiunta di quell’aggettivo “ampio”. Racconta un testimone di maggioranza che ha seguito le trattative: “Amendola e il ministro 5 Stelle D’Incà, i delegati a parlare con Draghi, entravano e uscivano dalla stanza con le varie bozze. Ma è stato tutto un teatrino”. Negli appunti di giornata restano tre spunti. Pierferdinando Casini ha parlato di “teatrino incomprensibile che non fa bene all’immagine del paese”: ai miei tempi, ha aggiunto, «un’informativa come quella del presidente Draghi in un momento così solenne delle nostre vite si sarebbe concluso con un lapidario “udito, s’approva”». Matteo Renzi, che in altri tempi avrebbe probabilmente spolpato l’osso per festeggiare “la fine dei 5 Stelle”, non ha infierito sugli sconfitti invitando invece il Parlamento ad “occuparsi di cose serie almeno fino alla fine dell’anno”. E resta il Pd, con una domanda: che fine fa adesso il campo di Enrico Letta?

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.