Perché proprio i docenti finiscono in burnout? Perché arrivano a «esaurirsi», «scoppiare», «bruciarsi» in un contesto lavorativo che a molti, dall’esterno, appare comodo e invidiabile? Nel mese di aprile ha fatto un certo rumore l’indagine dell’Health & Sustainability LAB: quasi un docente su due (tra i circa 6mila interpellati dal campione) è interessato da esaurimento emotivo, depersonalizzazione o bassa realizzazione personale.

Abbiamo approfondito i risultati con la professoressa Veronica Velasco, docente di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni alla Bicocca, responsabile della ricerca in questione, che fa una premessa in controtendenza rispetto ai clamori con cui viene accolta di solito la ricerca: «A fronte dei docenti che segnalano un disagio, c’è una parte significativa di docenti che vive il proprio lavoro con grande soddisfazione. Oltre il 75%, infatti, si dichiara soddisfatto del proprio lavoro e quasi tutti si dicono coinvolti e stimolati da quello che fanno».

Però il numero degli insoddisfatti resta molto alto: è così dura la relazione con gli studenti?
«Meno di quel che si crede. Una parte dei docenti coinvolti nella ricerca riferisce che la relazione con gli studenti rappresenta un lato sfidante ma positivo e soddisfacente dell’esperienza lavorativa».

Da cosa dipende allora il disagio?
«Pesano tantissimo il mancato riconoscimento sociale ed economico del proprio lavoro, il sovraccarico lavorativo dovuto a incombenze burocratiche e le condizioni ambientali e di organizzazione del personale che non facilitano alcune pratiche educative. Non a caso quelli che dichiarano condizioni di benessere lavorativo le associano spesso al supporto che percepiscono da parte del dirigente scolastico, dei colleghi e dei genitori».

Non si arriva al burnout da un giorno all’altro. Anche perché, da quanto emerge dalla ricerca, i docenti più giovani fanno trasparire maggior entusiasmo.
«Ci si arriva nel tempo. Gli studi ci dicono che solitamente è indotto da uno sbilanciamento tra richieste e risorse: la percezione dell’eccessiva richiesta e dell’assenza di risorse. E non si tratta solo di risorse individuali, ma di contesto, come ad esempio il supporto del dirigente scolastico e dei colleghi o il clima che si vive a scuola».

Dalla ricerca sono emerse alcune contraddizioni rispetto all’opinione comune. Il primo: i docenti della secondaria di primo grado, a quanto pare, stanno meglio dei colleghi delle superiori. Perché?
«Soprattutto nei comprensivi, credo che incida la maggior contaminazione tra primaria e secondaria di primo grado. Nella secondaria di secondo grado, invece, c’è un’eccessiva spinta alla performance e un più lento cambiamento rispetto alle metodologie, anche se bisogna riconoscere che quei docenti si interfacciano con una età dei ragazzi più complessa».

Perché c’è questa spinta alla performance?
«Nella secondaria di secondo grado sono più forti le preoccupazioni per il futuro professionale o formativo degli studenti, ma ci sono anche pressioni di sistema legate ai tanti ranking tra le scuole, che incidono sui dirigenti e a cascata sui docenti. E poi, nel complesso, nelle superiori registriamo meno attenzione alla dimensione del benessere complessivo sul luogo di lavoro. Lo vediamo con i programmi di promozione della salute, ai quali le superiori aderiscono decisamente meno».

A proposito, è emersa un’altra grande sorpresa: gli insegnanti dei licei se la passano peggio. Come mai?
«Il rapporto con l’utenza dovrebbe essere più facile, e invece non è così. Nei licei emerge inoltre una minor collaborazione tra i docenti, un clima complessivamente peggiore e un minor senso di appartenenza alla scuola».

Il paradosso più grande è però quello del «presentismo». Si è sempre sbandierato il tema dell’assenteismo dei dipendenti pubblici; a scuola, a quanto pare, accade il contrario…
«Sì, molti docenti dichiarano di fare fatica a staccarsi dal lavoro anche quando stanno male ed evitano spesso di prendere il giorno di malattia».

Come mai?
«Per esempio, se l’assenza è difficile da coprire, il docente che non sta bene percepisce che non c’è un’organizzazione che permette l’assenza. Anche in questo caso, come vede, spesso non sono situazioni individuali ma di contesto».

Ci sono anche elementi individuali in questo «presentismo»?
«Sì, ci sono anche condizioni psicologiche individuali, in primis la fatica ad accettare i propri limiti, a staccare dal lavoro o a delegare ad altri».

Cosa potrebbe promuovere un maggior benessere?
«Predisporre un clima di apertura al cambiamento. Aiuta molto anche costruire un senso di appartenenza alla scuola, aspetto su cui devono lavorare i dirigenti scolastici, con stili di leadership partecipativa e di leadership diffusa, non eccessivamente accentrata. Inoltre devono favorire processi di significato».

In che senso?
«Per esempio i cambiamenti normativi che sembrano calati dall’alto vanno riletti e interpretati nella loro cornice di senso. Ma anche l’arrivo di un nuovo dirigente, anche quando porta una visione utile, può disorientare i lavoratori se non si preoccupa di comunicare e discutere il significato delle proprie novità e di integrarlo nelle competenze già presenti a scuola. Bisogna creare momenti di gruppo, di condivisione della visione».